martedì 25 febbraio 2014

Gravity: la scoperta dello spazio interiore

Nell'ultimo mese sto guardando i film candidati, in una o più categorie, all'Oscar e il film di cui fino a ieri ho sempre rimandato la visione è Gravity di Alfonso Cuaron. Perché? Perché, lo ammetto, odio la fantascienza. Al solo pensare a shuttle, meteoriti e spazio più totale mi passa qualsivoglia buona intenzione di guardare un opera sul tema. Però Gravity andava visto e così gli ho dedicato la serata e... mi è piaciuto!
La storia a livello strutturale è semplice. Il tenente Kowalsky e la dottoressa Stone si trovano su di una stazione orbitante per compiere delle riparazioni; attorno a loro solo lo spazio più silenzioso, davanti in tutta la sua bellezza la Terra. Tutto sembra andare per il meglio tra battute e scherzi quando ecco arrivare l'allarme che una tempesta di detriti sta per colpirli in pieno. Di lì a poco si scatena l'inferno e in breve tempo quel che resta della stazione spaziale sono solo detriti  e cadaveri; gli unici sopravvissuti sono Stone e Kowalsky alla deriva nel nulla più totale. L'unico modo per sopravvivere è mantenere la calma e raggiungere, nel minor tempo possibile, la più vicina stazione per prendere una navetta di salvataggio e tornare sulla Terra. Non è così facile però.
Quello che sorprende e piace di questo film è che Cuaron non ci mostra niente di nuovo nel senso di inesplorato, non vuole farci vedere una nuova galassia o pianeta finora sconosciuto, ma punta tutto su quello che la parola "spazio" significa. Come cita a inizio film: "A 600 km dalla Terra non c'è nulla che trasporti il suono, non c'è pressione dell'aria, non c'è ossigeno. La vita nello spazio è impossibile"; si sopravvive solo per brevi periodi che richiedono uno sforzo notevole da parte del corpo. Lo spazio insomma è un luogo ostile, ma che da sempre affascina l'uomo che lo vede come qualcosa da conquistare, un po' come lo è stato il Far West nel '800. Il regista però ne mostra il lato "peggiore", quello che racchiude l'imprevisto, anche mortale. Ecco allora che viene messa alla prova la capacità umana di reagire, di lottare per salvarsi la vita, di sfidare i propri limiti. Il tema centrale del film è quindi il percorso di presa di coscienza di sé della dottoressa Stone che è anche un percorso di rinascita per lasciarsi finalmente il passato alle spalle e prendere di petto la vita e godersela. Questo però non può essere fatto da sola, serve un aiuto, una spinta che arriva da Kowalsky, tipico uomo "navigato", esperto di missioni nello spazio che nulla teme, ma che capisce anche quando è tempo di mollare la presa. 
Dopo 2001: Odissea nello spazio sono pochi i grandi film di fantascienza, solo i grandi registi riescono a farli; Cuaron è uno di loro perché immortala lo spazio da una nuova angolazione. Esso è lì, è il punto di arrivo dei due protagonisti; non c'è bisogno di esplorarlo, di sondarne le profondità. E' il luogo da cui andarsene il prima possibile, ma che al contempo funge da punto di partenza per un diverso tipo di ricerca: quella interiore. 

sabato 22 febbraio 2014

12 anni schiavo: l'America al banco degli imputati

Dall'anno scorso, nel cinema americano, si è diffuso come tema nei film quello della schiavitù dei neri d'America, dei loro diritti e della loro liberazione. Lincoln, Django Unchained, The Butler e infine 12 anni schiavo. In tutti questi film si mostra, giustamente, non dico mica il contrario, la crescita della più grande potenza mondiale, gli USA, verso quel lungo e doloroso processo di "evoluzione" che è stato il pieno riconoscimento dei diritti e della libertà soprattutto della popolazione di colore.
Il film di cui voglio parlare qui è 12 anni schiavo di Steve McQueen, storia vera di Solomon Northup che da uomo libero diventa schiavo. Affermato musicista nella New York del 1841 viene tratto in inganno e rapito per essere venduto ai proprietari delle piantagioni di cotone degli Stati del Sud. Passato da un padrone all'altro nell'arco di 12 anni, ricevendo insulti, frustate e umiliazioni di ogni tipo Solomon è costretto a rinunciare al suo vero nome, e di conseguenza alla sua identità, e deve nascondere di essere acculturato per non rischiare di morire. E' solo grazie a un uomo, Bass, abolizionista canadese che riesce a riconquistare la libertà e tornare a casa dalla sua famiglia. 
Il film è di una violenza a volte quasi inguardabile, e inudibile, ma perché voluto così dal regista stesso per mostrare come una Paese così evoluto come l'America abbia potuto rimanere cieco e anzi permettere che un crimine come la tratta delle persone e la loro messa in schiavitù fosse perpetrato per molto tempo. Si mostra anche la diversa mentalità di una stessa nazione, fortemente divisa tra gli Stati del nord, più aperti e progressisti, e quelli del sud, ancorati a convinzioni tramandate negli anni. Non va poi dimenticato che di lì a poco scoppierà la Guerra civile che si concluderà proprio con la definitiva abolizione della schiavitù.
Tornando al film ci accorgiamo, questo dopo aver finito di guardarlo, che molto spesso ci ritroviamo noi spettatori ad essere Solomon, a vedere con i suoi occhi o a immedesimarci (per quando possibile) con quello che prova; ciò è dovuto allo stile adottato da McQueen, ai primi piani e all'angolazione dell'inquadratura che molto spesso porta lo sguardo del protagonista a guardare dritto in camera, e quindi a guardare noi come se volesse dirci: "voi che state lì impassibili a guardare quello che mi succede non fate niente per fermare tutto questo?". Così facendo ci rende partecipi della vicenda, ci fa soffrire con lui ogni volta che riceve una frustata, ma ci fa anche gioire per il suo finale.
McQueen però ci fa riflettere anche su qualcos'altro: come la "razza" bianca si sia sempre considerata superiore ad ogni altra. Questo non per una sua personale rivendicazione (il regista è di colore) sul genere, ma perché è così punto e basta; quanto l'America ha lottato per un Presidente di colore? quand'è che avremo un Papa nero? 
Sarà perché tutti questi film sono usciti in un breve lasso di tempo o perché sotto sotto un po' fastidio ci danno, ci sentiamo saturi dell'argomento ma non possiamo dimenticarci di questa crudele pagina della storia dell'uomo. 

mercoledì 19 febbraio 2014

Alice Guy: la prima donna del cinema

Oggi voglio parlare della prima regista donna nella storia del cinema: Alice Guy. Purtroppo tuttora molto poco viene scritto su di lei e  non si ha ancora una filmografia completa delle sue opere..
Alice che non poteva che essere francese, patria del cinema, inizia la sua carriera a 21 anni nella settima arte lavorando come segretaria per la ditta Gaumont che in quel periodo, parlo della fine del 1800, sta sperimentando e rivaleggiano con altre case per il deposito di brevetti per apparati filmici. Ad ogni modo qui Alice inizia a scoprire il funzionamento delle diverse macchine, rimanendo affascinata dalle potenzialità espressive che esse consentono tanto da chiedere allo stesso Gaumont il permesso di utilizzare della pellicola e una macchina da presa per realizzare un breve filmato. Nasce così La feé aux choux primo lavoro scritto, diretto e prodotta da lei nel 1896; una manciata di secondi per raccontare, in modo spiritoso e ironico, come nascono i bambini. Girato sul retro degli studi della casa di produzione il cortometraggio è solo il primo di una lunga serie di opere innovative della regista che si distingue per l'uso di tecniche innovative, audacia nella sperimentazione e soprattutto per essere donna!

In breve tempo viene promossa da semplice segretaria a capo della produzione, cosa che le permette di entrare più facilmente in contatto con personalità importanti dell'epoca come il fotografo Nadar, Edison e Eiffel da cui trae spunti per i suoi lavori. 
Dopo il matrimonio decide di trasferirsi in America dove fonda il suo primo studio di produzione: Solax, prima nel Queens e poi nel New Jersey. Qui Alice continua a realizzare film servendosi di sperimentazioni tecniche sempre aggiornate, dialoghi arguti e un cast interraziale e lo farà fino al 1920, anno in cui gira il suo ultimo film. 
Si è calcolato, e la stima non è ancora certa, che nell'arco di una ventina di anni lei abbia realizzato più di 1000 lavori, molti dei quali ormai andati persi a causa del deterioramento dei supporti, altri ancora in fase di restauro e alcuni invece da trovare. 
Alice ha aperto la strada alle "cariche più alte" nel cinema alle donne che generalmente venivano impiegate solo per lavori manuali come la colorazione della pellicola oppure come semplici comparse nei filmatati. Oggi si cerca strenuamente di riconoscerle una volta per tutte quel merito che troppo spesso le è stato negato, magari assegnandole una stella sull'Hollywood's Walk of Fame, mentre nel 2011 le è stato assegnato, come riconoscimento speciale postumo, da Martin Scorsese il DGA (Directors Guild of America Awards), premio dato dal sindacato che rappresenta i registi statunitensi.
E' importante che questa figura di donna coraggiosa e intraprendente venga messa in luce e fatta conoscere alle giovani generazioni che si avvicinano al mondo del cinema per mostrare come nella settima arte tutti possono realizzare qualcosa di significativo.

lunedì 17 febbraio 2014

Monuments Men: l'arte che salva l'arte

Monuments Men è certamente un film a cui va riconosciuto un merito fondamentale: incentivare e stimolare l'amore per l'arte, tutta l'arte. 
Il gruppo dei cosiddetti "Monuments men" viene istituito sotto il governo Roosevelt, durante la Seconda Guerra Mondiale, con il preciso compito di andare in Europa a recuperare e salvare tutte quelle opere d'arte (quadri, sculture..) che Hitler ha fatto rubare per poter costruire il suo personale "Führer Museum". La squadra non è composta da soldati, ma da curatori, storici dell'arte, architetti, restauratori, insomma da coloro che conoscono l'arte e che dedicano la loro vita ad essa. Il recupero di tutte le opere però non è cosa semplice; i nazisti infatti le hanno nascoste nelle miniere in vari punti della Germania e pur di non farle recuperare ai nemici sono addirittura disposti a bruciarle. Stessa sorte è toccata in precedenza a grandi capolavori di artisti contemporanei come Picasso, Klee Mirò perché considerati come "Arte deviata" da Hitler in persona.
E' davvero triste, soprattutto per una persona che come me lavora con le arti, vedere, anche se riprodotto sullo schermo, uomini che bruciano le opere di indiscussi maestri solo perché non adatte a propri canoni estetici o perché preferiscono vederle in cenere piuttosto che nelle mani di qualcun'altro, senza dimenticare che molte di esse sono state sottratte a collezioni private, spesso di famiglie ebree. 
Tuttavia va ricordato, e Clooney non lo tralascia, che non sono stati solo i nazisti a deturpare l'arte; certo loro l'hanno fatto sistematicamente e maggiormente, ma anche gli americani hanno bombardato un edificio come l'abbazia di Montecatini senza riserve pur di far indietreggiare i nemici, perché, si sa, in guerra tutto è lecito e "perdite umane presuppongono anche perdite artistiche". Ciò non toglie che i Monuments Men sono riusciti a recuperare e restituire ai legittimi proprietari circa 5 milioni di opere trafugate, altre sono tuttora nascoste e altre, ahimè, perdute per sempre.
La cosa però che mi stupisce maggiormente dopo aver visto questo film sono stati i commenti di molte persone che si sono rese conto della brutalità del gesto fatto dai nazisti additandolo a cosa che non va assolutamente ripetuta (e che invece è stata ripetuta!) e professando l'amore per l'arte quando, fino a qualche ora prima probabilmente non conoscevano neanche un terzo delle opere mostrate. L'arte va preservata non solo da gesti come questo che sono estremi, ma attraverso l'insegnamento nelle scuole, l'educazione alla sua importanza e la presa coscienza del ruolo che essa gioca in un Paese come il nostro che è culla di tutta l'arte.
Ecco allora dove risiede il valore di questo film, valore appieno compreso sia da Clooney che lo ha scelto come tema sia dal suo cast (attori di primissimo livello): stimolare la conoscenza del mondo artistico perché possa essere tramandato alle generazioni future. 
Per questa volta scelgo di non addentrarmi sulla qualità stilistica e narrativa dell'opera perché ritengo, come critico, che lo scopo posto dal regista sia superi per importanza il resto.

domenica 16 febbraio 2014

La grande bellezza - il cinema italiano dà il meglio quando mostra il peggio

Il cinema italiano, ad essere sincera, non è mai stato tra i miei preferiti, a volte proprio non riesco a guardarlo per mancanza di profondità di contenuti, perché veicola temi superficiali che, guarda caso, sono gli unici che fanno alzare gli italiani dal divano per andarli a vedere. 
Però sembra che pian piano qualcosa stia finalmente cambiando grazie a quei pochi veri autori che hanno sempre cercato di farsi largo in mezzo a tutto il guazzabuglio che è il nostro cinema. Una svolta vera e propria si è vista meno di un anno fa quando esce sul grande schermo La grande bellezza di Paolo Sorrentino.
E'curioso che un film che mostra tutte le pecche e i vizi della società italiana sia riuscito non solo ad avere un'enorme affluenza di pubblico, ma anche a ricevere il Golden Globe come Miglior film straniero e la nomination agli Oscar sempre per la stessa categoria. La stessa cosa si è già verificata in passato con La dolce vita di Federico Fellini che mostra, in questo caso, la dissolutezza della bella vita romana; forse agli italiani piace vedere il peggio che abbiamo da offrire? Chissà.
Fatto sta che Sorrentino, attraverso una magistrale interpretazione di Toni Servillo, ce ne dà un assaggio, ma ci lascia anche qualche speranza racchiusa nei piccoli gesti dei suoi personaggi.
Jep Gambardella (Servillo), giornalista 65enne autore di un solo libro all'inizio della sua carriera, è un uomo che, come dice lui, "vive di notte e dorme di giorno", organizzando grandiose feste a casa sua dove convoglia "il meglio" che Roma ha da offrire: attrici che non sono più attrici, scrittori che sognano la televisione, membri del clero disposti a tutto pur di raggiungere i proprio scopi....
Jep però è stufo; la Roma che sognava quando da giovane vi si è trasferito non esiste più, forse non è mai esistita se non nel suo immaginario, e pensa di tornarsene al paesino d'origine dove, finalmente, scrivere un altro libro. Inizia così il suo percorso alla riscoperta di se stesso e del mondo che lo circonda, dove nessuno è veramente libero di essere ciò che vuole, perché dietro c'è sempre qualcun'altro che manovra i fili. Però nel suo vagabondare per le vie di Roma trova anche qualcosa di positivo; piccoli gesti compiuti da persone in apparenza frivole e vuote come Ramona (Ferilli) che fa la spogliarellista, ma solo per pagarsi le cure mediche. Ciò sembra risollevare le speranze di Jep, e anche di noi spettatori, ma Sorrentino le blocca sul nascere; Ramona nonostante gli sforzi muore, l'unico vero amico di Jep lascia Roma per sempre e gli altri mano a mano si allontanano da lui. 
Possiamo criticarlo, non accettarlo ma tutto quello che il regista ci mostra è vero, la nostra società è così: corrotta, dedita più al soddisfacimento dei proprio vizi che non delle necessità del Paese, anche in momenti difficili. Sorrentino non fa sconti a nessuno, includendo nell'opera tutte le categorie possibili dai politici, al clero fino al mondo dello spettacolo, ridandocene un ritratto verosimigliante. 
La cosa però che mi stupisce di più è che, alla notizia della vittoria del Golden Globe e della nomination all'Oscar (cosa che ho sostenuto fin da subito e che caldeggio vivamente), la gente abbia esultato di gioia, ma  per il motivo sbagliato: per il fatto di aver vinto qualcosa! senza tenere conto dei contenuti che il film mostra (giustissimi e verissimi). Forse non si è resa conto che quello che è stato premiato, oltre alla bravura dell'intero staff del film, è la "messa a nudo" del nostro modo di agire all'interno della società e di conseguenza di come la rendiamo. 
Ciò non toglie che un film del genere andava fatto e spero davvero che il suo valore venga riconosciuto e premiato con qualcosa di concreto come un Oscar!

Cinema: arte o spettacolo?

Tutti vanno al cinema e tutti guardano i film: sul grande schermo, in televisione, ai festival o ai cineforum. Ma quando si parla di cinema cosa si intende? Spesso si usa questo termine, ma in modo sbagliato; quello che vi propongo è una riflessione su che cosa significa veramente la parola CINEMA.
Il Cinema nasce il 28 dicembre 1895 quando due fratelli, i Lumière, mostrano per la prima volta ad un gruppo di persone su di un grande schermo una serie di immagini in movimento. L'evento suscita grande stupore e soprattutto paura perché il filmato, seppur breve, mostra l'arrivo di un treno alla stazione; gli spettatori in sala, convinti che il mezzo gli avrebbe investiti, si spostarono spaventati per poi scoprire che in realtà tutto succedeva su di uno schermo. 

Da questo momento in poi il cinema inizia il suo percorso evolutivo che lo porta a elaborare continue strategie per rinnovarsi ed essere sempre aggiornato. Ma, tornando al tema iniziale, cosa vuol dire tutto ciò? Inizialmente il cinema nasce come forma di intrattenimento per le folle; pagando un nichelino la gente poteva assistere a brevi spettacoli di vario genere (vedute di paesaggi, giochi di magia..) riuniti in grandi sale, i cosiddetti "Nickelodeons". In questo modo essi si potevano distrarre dalle fatiche quotidiane e immaginare di essere in luoghi esotici o trovarsi faccia a faccia con strane creature.
Tuttavia ben presto se ne capisce l'importanza come vera e propria forma artistica, sia per la sua capacità di unire tra loro persone di diversa estrazione sociale sia per i contenuti che veicola e per i mezzi che utilizza nel fare ciò. Ecco allora che compare il termine "Settima Arte".
Eh sì, cinema = arte a tutti gli effetti. Grazie a una macchina da presa e a un occhio umano, uniti in simbiosi, è possibile dare vita ad opere che per qualità e difficoltà di realizzazione sono dei veri capolavori che, nonostante il passare del tempo e il deterioramento fisico, rimango impressi come capisaldi di determinati periodi storici o eventi significativi. Chi parla di cinema come mera spettacolarizzazione sbaglia quindi perché lo sottovaluta; certo esso è un'arte giovane che deve fare i conti con altre più antiche e ben radicate nella cultura comune ma, grazie ai suoi mezzi è riuscito ad assimilarle in sé. Come? Semplice..
Pensateci: il cinema deriva dalla fotografia (una serie di immagini, fisse, in movimento) che a sua volta ha preso spunto dalla pittura (non rappresenta essa forse paesaggi e persone su di un suffisso, la tela, nell'atto di fare qualcosa?). Fin dall'inizio poi il cinema ha sempre avuto un qualche tipo di accompagnamento sonoro tramite musicisti dal vivo e poi con l'aggiunta della colonna sonora :ecco allora che si avvale della musica! Non dimentichiamo il teatro; i primi attori provengono proprio dal palcoscenico e i migliori metodi recitativi derivano da quelli teatrali. La letteratura... quante sono le opere che vengono trasposte sul grande schermo e prendono vita grazie al cinema? E poi bisogna saper scrivere una sceneggiatura per poter realizzare un film!
Questi sono solo degli esempi per farvi capire come il cinema non debba essere sottovalutato perché considerato come semplice spettacolo; l'arte è uno spettacolo della vita, della natura, di tutto... perché capace di esaltare ciò che di bello esiste nel mondo!


sabato 15 febbraio 2014

La Bella e La Bestia (1991)

Come primo post di questo blog non potevo non scegliere il film che mi rappresenta maggiormente, quello che non mi stancherò mai di vedere, quello che guardo quando sto male, quando non ho voglia di vedere nient'altro... insomma quello che considero "il mio film".

La Bella e la Bestia

Di versioni tratte dalla fiaba di Jeanne-Marie Leprince di Beaumont nel mondo del cinema ce ne sono varie, ma quella che mi ha fin da subito colpito, forse perché amo l'animazione come genere cinematografico, è quella creata dalla Disney nel 1991.
Diretto da Kirk Wise e Gary Trousdale è il primo film d'animazione a ricevere una nomination nella categoria Miglior film oltreché vincere la statuetta per Miglior canzone originale e Miglior colonna sonora. E' tuttora considerato uno dei migliori 100 film d'amore e rappresenta un classico all'interno della produzione disneyana. 
La storia, presumo, la conosciamo tutti. Belle, giovane figlia di uno strambo inventore, vive in un paesino dove ogni giorno è uguale al precedente e non succede mai niente di avventuroso finché suo padre non parte per una fiera, ma non fa ritorno a casa. La ragazza lo va a cercare e lo trova intrappolato in un maestoso e tetro castello il cui padrone è una spaventosa bestia. Per salvarlo Belle si offre al suo posto e di punto in bianco si trova ad essere prigioniera in un luogo in cui il tempo sembra essersi fermato e dove gli oggetti sono animati e parlano! Qui impara a conoscere gli aspetti nascosti della Bestia e, pian piano ad innamorarsi di lei, cosa che le permetterà di spezzare l'incantesimo che grava da anni su tutto il castello e i suoi abitanti. 
Anche se sono molti gli stravolgimenti fatti rispetto alla trama originale della storia quello che conta sono i temi fondamentali che casa Disney vuole trasmettere, non solo ai bambini, ma soprattutto agli adulti. Ecco quindi apparire il desiderio di libertà che non significa per forza scappare da tutto e tutti, ma trovare la propria dimensione, sentirsi bene con se stessi e con gli altri anche all'interno di una ristretta cerchia; ciò implica anche fiducia, credere nelle proprie possibilità e non sottovalutare mai quello che gli altri hanno da offrire. Spesso poi l'apparenza inganna: dietro una bestia può celarsi un principe come dietro a un uomo aitante ci può essere il più spregevole degli zotici, bisogna imparare a guardare oltre, nel profondo dell'anima e non lasciarsi scoraggiare al primo fallimento.
Infine il tema più importante: l'Amore con la A maiuscola. Tutto il film, e di conseguenza le altre tematiche, ruota attorno ad esso per sottolineare come solo un sentimento puro può veramente cambiare cose e persone, spezzando il più forte dei malefici. L'amore però non va sottovalutato: bisogna credere nel suo potere e tramandarlo.
Ecco perché il film è adatto a più livelli di lettura a seconda di chi lo guarda; anche un adulto può immedesimarsi in uno dei personaggi e riflettere sul proprio modo di interagire con gli altri e forse cambiare la propria posizione. 
Non bisogna mai sottovalutare un'opera d'animazione, considerandola adatta solo ai bambini perché essa vi stupirà!