domenica 29 giugno 2014

Departures che sono partenze

Per concludere in bellezza la settima, mes chères, ho deciso di rimanere nell'ambito del cinema orientale e proporvi un film che a me personalmente è piaciuto molto per la sensibilità con cui racconta la storia. La pellicola di cui vi parlerò è quindi Departures di Yojiro Takita.
Protagonista è il giovane Daigo, violoncellista appena rimasto disoccupato a causa dello scioglimento dell'orchestra in cui suona, che si ritrova a dover traslocare con la moglie per i costi elevati del vivere in città. Decidono così di ritornare nel paese natale per cercare di ricostruirsi una vita. Qui però le cose non sono semplici come immaginavano; trovare un lavoro non è cosa facile, soprattutto uno che piaccia a Daigo finché non gli salta all'occhio un annuncio che attira la sua attenzione. Si presenta quindi a un'agenzia il cui compito è quello di accompagnare le persone "che partono per dei viaggi"; non sa però che il viaggio in questione è l'ultimo che faranno. L'agenzia è un'agenzia funebre.
Daigo viene assunto con il compito di tanatoesteta (dare un aspetto consono e decoroso ai defunti); seppur non convinto del nuovo impiego torna a casa per festeggiare con la moglie tenendole però nascosta la sua vera mansione. Inizia così la sua doppia vita fatta di silenzi e soste al bagno pubblico per togliersi di dosso l'odore di morte prima di tornare a casa. Tutto questo tuttavia non può durare e la moglie presto viene a conoscenza di quello che realmente fa; per la vergogna abbandona in marito trasferendosi in città. Nonostante tutto Daigo continua a fare il tanatoesteta comprendendo sempre meglio l'importanza che il suo ruolo ha per i parenti del defunto e per il defunto stesso. Parallelamente riscopre anche, grazie al violoncello che suonava da bambino, l'amore sopito per la musica che lo aiuta nel percorso di riscoperta di sé. Inaspettate sorprese sono in serbo per lui...
La musica viene scelta dal regista Takita come fil rouge che guida il protagonista attraverso una fase cruciale della sua vita e lo aiuta a superare i momenti bui rischiarandone la via. E' sempre la musica poi a fare da sottofondo alle cerimonie religiose fungendo da lenitivo al dolore dei presenti per la dipartita del loro caro. Tema difficile quanto tabù in Giappone la morte viene affrontata con un approccio particolarmente delicato e sensibile, mostrandone il lato positivo, quello del lasciare la materialità terrena per qualcosa di più elevato e spirituale. Come sottolinea l'annuncio dell'agenzia funebre la morte rappresenta un viaggio, un viaggio che richiede un'accurata preparazione racchiusa all'interno di un rito in cui ogni passaggio, ogni minimo gesto è fondamentale per far sì che il defunto possa intraprendere serenamente il suo ultimo cammino. 
Questo cammino rappresenta anche la maturazione di Daigo, il suo prendere coscienza dei suoi limiti e delle sue capacità per poter finalmente fare pace con il passato e guardare serenamente al futuro. Benché la carriera di musicista non sia quella a lui più consona Daigo non rinuncia a suonare, anzi ne riscopre la bellezza proprio nel momento in cui ciò non è più la sua fonte di sostentamento economico. La musica quindi diventa per lui quello che per i morti è la cerimonia funebre: un'elevazione spirituale verso qualcosa di altro e alto. 
Se il film che vi ho proposto ieri è delicato nel modo di dialogare tra protagonista e spettatori questo lo è ancora di più; vi consiglio di guardarlo!
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sabato 28 giugno 2014

Brother Kitano

Rieccomi qua dopo un'immaginaria vacanza nel Principato monegasco per cambiare completamente genere e proporvi un film che però parla sempre di famiglia in qualche modo. 
Ecco dunque a voi Brother di Takeshi Kitano.
Protagonista della storia è Yamamoto, uomo di mezza età, a cui è stata sterminata la famiglia in Giappone ad opera di bande rivali che si contendono il controllo del territorio e il conseguente profitto che ne deriva. Ormai solo e in pericolo decide di scappare in America dove si trova il fratello minore che nel frattempo è diventato un piccolo spacciatore di droga. Qui però Yamamoto non riesce a stare con le mani in mano e decide quindi, pur non conoscendo una sola parola di inglese, di mettere in piedi un suo commercio di stupefacenti, includendovi il fratello e alcuni suoi amici spacciatori. In breve tempo si viene a costituire attorno a lui una vera e propria famiglia in cui i vari membri sono disposti a sacrificarsi pur di salvargli la vita. La pace tuttavia non può durare e, man mano, gli altri clan locali intraprendono una lotta senza quartiere per impossessarsi nuovamente dei territori persi: non sanno a cosa vanno incontro; la furia di Yamamoto, perennemente calmo all'apparenza, si riversa senza pietà su di loro eliminandoli uno ad uno. Tutto ciò fino a che non interviene la Mafia italiana che non accetta il nuovo nucleo straniero ogni giorni più potente; darà così vita ad una vera guerra destinata a sfociare inesorabilmente in un massacro.
Kitano, regista e protagonista, mostra con uno stile del tutto personale, quello stile che lo ha reso famoso alla critica mondiale, una storia di famiglia. E' però una famiglia particolare, non per forza unita da legami di sangue ma sempre fedele tra i suoi membri. Kitano indaga i rapporti all'interno dei clan che trafficano in droga, mostrando come le parentele siano del tutto o quasi inutili perché quello che conta non è il legame familiare ma la lealtà al capo banda da parte dei suoi sottoposti.
Anche se fratelli Yamamoto e Ken vivono esistenze completamente separate, senza troppo curarsi dei problemi dell'altro; persino del momento clou, quello in cui si richiederebbe il sostegno maggiore, si preferisce scappare pur di salvarsi la vita. Che poi l'esito sia favorevole o meno questo è da vedere.
Genere preferito dal regista, Kitano alterna scene di violenza, a volte quasi splatter, frenetiche e veloci a lunghe pause in cui dominano i silenzi e gli sguardi lanciati di sottecchi come a voler studiare le mosse di un possibile avversario per carpirne la strategia. Su tutti poi spicca la sua figura, quella di Yamamoto, un samurai contemporaneo senza dimora e senza niente da perdere se non la sua vita che comunque non considera come un bene così prezioso. Figura enigmatica e silenziosa sa molto prima di tutti gli altri quale sarà il suo destino e lo accetta consapevole di ciò che esso comporta.
Non tutti i registi sono capaci di trasmettere emozioni profonde con semplici sguardi e tanti silenzi, ci vuole particolare tatto a abilità nel dialogare con e attraverso la macchina da presa. Kitano ha questo dono.
Benché io preferisca altre sue opere non posso dire che questa non mi sia piaciuta..
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giovedì 26 giugno 2014

Grace: musa del mondo

Bon jour, bon jour! Oggi mi sento particolarmente in vena glamour e il francese direi ci va a nozze! quindi ho pensato bene di portarvi a fare un giro lungo le coste del Principato di Monaco e all'interno del palazzo reale nel periodo attorno agli anni '60 perché voglio parlarvi di un film che ha suscitato parecchie polemiche alla sua uscita: Grace di Monaco diretto da Olivier Dahan.
Come forse saprete la pellicola è un biopic ispirato alla vera storia della principessa Grace di Monaco, moglie del principe Ranieri ed ex musa di Alfred Hitchcock. In particolare vengono analizzati gli anni in cui emergono i contenziosi tra Ranieri e il presidente francese De Gaulle e in cui nasce una crisi matrimoniale e d'identità che coinvolgono in pieno Grace.
Diventata principessa solo da qualche anno Grace si ritrova a dover fare i conti con un presente in cui non si sente la protagonista, in cui non si sente sicura del suo ruolo di altezza reale e, soprattutto, del suo ruolo all'interno del nucleo familiare. Vorrebbe tornare a recitare, Hitchcock arriva a Montecarlo con il solo scopo di proporle il ruolo principale nel suo prossimo film Marnie, ma è fortemente combattuta, divisa tra la posizione diplomatica che ora si trova a dover ricoprire e quello che vorrebbe fare veramente. A complicare le cose ci si mette pure De Gaulle che minaccia di invadere il principato se non cede alle sue richieste economiche, mettendo in crisi il principe Ranieri sempre più distante dalla famiglia e intollerante a qualsiasi richiesta della moglie. Seppur abituata a confrontarsi con la stampa ora Grace ne scopre il lato peggiore, quello capace di screditarla agli occhi del mondo e in particolar modo a quelli dei suoi sudditi che iniziano a perdere fiducia in lei. Dovrà per tanto rimboccarsi le maniche a dare prova di quello che sa fare, rivelando il suo carattere combattivo e tenace, capace di riconquistare il mondo intero e aiutare il marito nei suoi problemi salvando così Principato e matrimonio.
La figura di Grace viene quindi messa in primo piano fin dall'inizio da Dahan, oscurando quella di tutti gli altri personaggi, Ranieri compreso, e suscitando le ire della famiglia reale che vorrebbe se non proibirne l'uscita almeno modificarne alcune parti. Tuttavia questo è un film biografico sulla vita, o almeno una parte fondamentale, della principessa, sul come essa sia stata capace di fare delle scelte dettate dall'amore materno sacrificando quello che per lei contava molto: la sua carriera di attrice. Grace sapeva che sposando un principe avrebbe per forza di cose dovuto abbandonare il palcoscenico, ma nel profondo del suo cuore la speranza non era mai morta e Hitchcock l'aveva risvegliata proponendole la parte di Marnie (andata poi a Tippy Hedren). A causa dei problemi economici del Principato, dovuti a scontri con la Francia, il suo matrimonio subisce un duro colpo che la porta addirittura a pensare ad un possibile divorzio; non potendo contare sul solo supporto di Ranieri per risolvere la questione Grace si affida ad uno dei suoi più cari amici capace di guidarla verso la giusta soluzione e soprattutto attraverso un percorso di riscoperta delle proprie capacità.
E' proprio su ciò che il regista pone l'accento: il coraggio dimostrato da Grace non solo nel compiere delle scelte decisive, ma anche nel far emergere la sua personalità forte capace allo stesso tempo di conquistare i cuori di tutti e di risolvere problemi diplomatici. E' lei, sembra dire Dahan, il cuore pulsante del Regno monegasco, è a lei che tutti guardano come modello da imitare, non solo di stile ed eleganza, ma in particolar modo di carisma. Tutto ruota intorno a lei, gli altri sono solo personaggi secondari, per quanto importanti.
Non c'è quindi da stupirsi che il film sia stato contestato, ma ciò non toglie che sia un'opera intima e personale su di un grande personaggio del mondo del cinema  e non.
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sabato 21 giugno 2014

The Raven: il corvo-Poe

Salut carissimi! Per iniziare il weekend con un po' di brivido ho pensato bene di scegliere un film... un po' movimentato per usare un eufemismo. Un thriller in costume che ha come protagonista uno dei più famosi scrittori americani dell'Ottocento: Edgar Allan Poe. Ecco quindi a voi The Raven di James McTeigue.
E' il 1849 a Baltimora, sono passati da tempo gli anni del successo e dello spirito mordace e acuto  che caratterizzavano i suoi scritti; Poe ormai vive, o meglio "non-vive", alla giornata, sempre accompagnato dall'alcool e perennemente senza soldi. E', in poche parole, nel pieno declino fisico e psicologico; l'unica cosa che ancora lo fa andare avanti è l'amore per Emily, figlia di un ricco militare che naturalmente non approva il rapporto tra i due. Sembra che la sua esistenza debba avere termine da un momento all'altro... fino a che la polizia chiede il suo aiuto per risolvere una serie di crimini che richiamano in tutto e per tutto le trame dei suoi racconti. Lo scrittore, combattuto tra la voglia di trovare il suo imitatore e il senso di colpa per aver involontariamente dato il la a tutto ciò, riprende vita; ritorna in lui quella linfa che molto prima gli ha permesso di creare dei piccoli capolavori del terrore. Le cose però si complicano quando, per rendere più interessante il gioco, l'omicida rapisce Emily costringendo così Edgar a fare i conti con il proprio passato e il proprio presente nel flebile tentativo di salvarla; arrivato al limite è disposto a dare la sua vita in cambio di quella dell'amata, cosciente del fatto che ormai non ha più nulla da perdere.
La figura di Edgar Allan Poe acquisisce nel film un nuovo status: non è più solo, se così si può dire, lo scrittore che dà origine alla storia che poi si svilupperà nella pellicola, ma ne diventa anche il protagonista, la figura chiave per riuscire a svelare l'enigma e salvare la fanciulla in pericolo. Senza di lui non esisterebbero possibilità di salvezza. E' inoltre interessante notare la scelta fatta dal regista per quanto riguarda il periodo; il tutto si svolge negli ultimi anni di vita di Poe, anni in cui ormai è irrimediabilmente compromesso dall'alcool, vagamente depresso e incapace di tornare a scrivere qualsiasi cosa ricordi i suoi successi. Proprio in questi anni nebulosi ecco presentarsi lo stimolo necessario a far sì che si riprenda; l'insospettabile emulatore che, stufo anch'egli di leggere solo scadenti recensioni fatte dal suo idolo per guadagnare qualche dollaro, decide di movimentare il tutto ricreando minuziosamente gli scenari descritti nella collana di racconti "I delitti della Rue Morgue", successo di gioventù Poe. 
Per rendere maggiormente difficile la caccia di Edgar e di noi spettatori il regista ricorre ad una serie di McGuffin, richiamando così quel genio del thriller che fu Hitchcock, volti a depistare la scoperta dell'assassino; più di una volta ci sembra di capire chi sia, ma regolarmente rimaniamo delusi nell'apprendere che non è chi pensavamo fosse. Non manca mai inoltre, quasi fosse una guida che veglia dall'alto, il corvo, animale totemico dello stesso scrittore portatore di oscuri presagi ma anche di scoperte inaspettate.
L'idea di dare vita a un personaggio così importante per la letteratura facendolo diventare parte dei suoi stessi racconti è buona, ma realizzarla efficacemente richiede doti registiche alquanto elevate. Sebbene la prima parte del film sia accattivante e molto cruenta (almeno per i miei standard), la seconda mostra invece un graduale calando riprendendosi solo vagamente nel finale che rimane comunque incompleto e oscuro; sta allo spettatore scegliere come preferisce immaginarne l'esito. 
Non so cosa ne pensi Poe di questo film, ma sicuramente ci sono potenzialità che non sono state sfruttate appieno... lascio a voi decidere quali.
Per darvi però un'idea di come la penso io eccovi il mio giudizio che da oggi viene modificato sostituendo le mini me con mini lanterne perché, come ha saggiamente suggerito qualcuno, illuminano la strada dello spettatore verso la visione!
                                                                                                                                       2 e mezzo 


lunedì 16 giugno 2014

Il fascino del fuorilegge

Bon jour mie cari! Oggi è la giornata ideale per trasferirci negli States, in particolare nel Far West, e parlare un po' del suo genere d'eccellenza: il western. Tranquilli però niente cronologia e date! ho scelto un film che, tra l'altro, è anche un western atipico, più "moderno" se vogliamo e sensibile. Ecco quindi a voi L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford diretto da Andrew Dominik.
La storia si svolge nella seconda metà dell'Ottocento e ha come protagonisti la famigerata banda composta dai fratelli James che non si fa problemi a svaligiare banche, treni, diligenze e quant'altro per tutto lo stato del Missouri. Il vero leader del gruppo è Jesse, uomo dalla personalità complessa; marito e padre amorevole (per i canoni del tempo), spietato e freddo assassino, fine pensatore. Jesse viene idolatrato da tutti, le sue gesta, anche se edulcorate, vengono raccontate in periodici letti voracemente dal giovane Robert Ford che sogna di entrare a far parte del gruppo di banditi diventando addirittura la spalla del temuto fuorilegge. Il ragazzo riesce davvero a diventare compagno e amico di Jesse, scoprendo però a sue spese la volubilità del carattere del suo idolo, pronto a sacrificare i componenti della banda qualora se ne sentisse minacciato. Robert è consapevole, con il passare del tempo, che Jesse non si fida di lui e ciò inizia lentamente a logorarlo psicologicamente rendendolo sempre più tormentato e inquieto fino a portarlo a schierarsi contro il suo mito decidendo di collaborare con la legge. Le conseguenze sono tragiche e avranno dei risvolti che neanche lui poteva prevedere...
Parlando di western atipico poco fa mi riferivo alla struttura e ai contenuti che generalmente caratterizzano il genere; lotta del bene contro il male (parlando proprio genericamente), sparatorie a non finire in sperdute località del più lontano West, l'amore della donna, generalmente costretta a prostituirsi nei saloon per vivere, come premio finale ecc.. In questo caso niente di tutto ciò avviene. Il regista decide di mostrarci la psicologia e le emozioni che caratterizzano uno dei più ricercati e temuti fourilegge; dietro un'apparente facciata di calcolata freddezza si nasconde un animo tormentato e un corpo che pian piano si sta consumando. Jesse è sì un bandito, ma è soprattutto un uomo come tutti gli altri con i suoi dolori e le sue angosce, un uomo che lotta costantemente per mantenere intatto il suo status e al contempo tenere unita la famiglia che si sacrifica per lui spostandosi di città in città appena la necessità lo richiede. 
Anche se l'esito sarà tragico lo sarà per scelta sua e non per volere di altri; quello di Jesse è una sorta di sacrificio che, probabilmente da uomo lungimirante aveva già previsto, lo porterà ad essere idolatrato ancora di più dopo, trasformando il suo traditore in un vile odiato da tutti.  
Per rendere ancora meglio gli stati d'animo melanconici e l'indebolimento del corpo del protagonista, in particolar modo la vista, Dominik sceglie l'uso di particolari focali che creano così effetti visivi distorti, rendendo anche gli spettatori partecipi della sua visione delle cose. Accanto a ciò c'è inoltre una selezionatissima scelta della fotografia; paesaggi colti in particolari momenti della giornata, quelli più affini a Jesse, il suo scorrere delle dita tra le spighe di grano come a voler ricordare che nulla è immutabile, sottolineano la profonda conoscenza che ha di sé, i suoi limiti e il tempo che ha ancora a disposizione. 
Concluderei con il solito giudizio in mini me ma, siccome mi è stato detto che non lo esprimo abbastanza chiaramente, da questo momento cercherò di farlo... Ogni critico che si rispetti ha sempre con sé un'accetta tascabile (nel mio caso da borsa!) pronta a calare la sua lama sul film che le capita a tiro in quel momento e oggi è la volta di questo. La pellicola non è male, per tutto il discorso fatto sopra, ma è troppo lunga e a volte anche lenta; io personalmente avrei tagliato 45 min buoni e velocizzato alcune azioni in punti salienti. Detto ciò il mio voto è di   
                                                                                                                                                   3                                                                                                            

mercoledì 11 giugno 2014

Musical: da Top Hat a Les Misérables

Eccomi qua! Pensavate fossi andata in vacanza? No no stavo pensando a cosa proporvi di nuovo o interessante.. che vi piaccia o meno quindi per oggi ho riversato la mia attenzione sul musical, genere che mi piace molto e che spesso serve a distrarre dai problemi quotidiani.
Ecco una breve storia del genere con qualche esempio.
Il musical si sviluppa principalmente attorno agli anni '30 quanto inizia la vera e propria diversificazione dei generi. Principalmente esso si divide in due filoni: da una parta c'è la casa di produzione RKO che sceglie come tema dei suoi film un mondo edulcorato, sbrilluccicante, dove tutto va come deve andare e le persone sono sempre serene e rilassate (un modo per consentire agli spettatori di evadere dalla tristezza del periodo data anche dalla Grande Depressione); suoi protagonisti sono, non a caso, la coppia di ballerini Fred Astaire e Ginger Rogers, quintessenza della leggerezza. Dall'altro invece c'è la Warner Bros. che si affida a Busby Berkeley come regista; ecco allora nascere dal nulla coreografie ipnotiche in cui prevale il bianco e nero dei costumi, piume di struzzo a non finire e una miriade di ballerine. Qui non conta la trama come in precedenza bensì l'effetto scenico ottenuto.
Passata questa fase iniziale di grande popolarità il genere subisce una battuta d'arresto che si spezza solo negli anni '50-'60 grazie a un grande regista capace di riportarvi nuova linfa: Vincente Minnelli che predilige opere con costumi sfarzosi e ricchi nonché colorati. Generalmente i film di questo periodo sono dei riadattamenti di grandi opere teatrali. 
A tutt'oggi invece è diventato quasi raro vedere pellicole di questo tipo sia perché è cambiata la tipologia di pubblico che sempre meno li ama sia per i costi che richiede la realizzazione. Solo il cinema indiano, Bollywood, ha fatto del genere il suo cavallo di battaglia ottenendo, tra l'altro, grande successo (almeno in patria); balletti super colorati, coreografie vorticose e musiche orecchiabili colpiscono gli spettatori. 
Nonostante tutto, e qui arrivo al sodo della questione, lo scorso anno un regista inglese ha deciso di sfidare ogni convenzione e proporre un film, tratto da un musical a sua volta preso dal romanzo di Hugo, quasi totalmente cantato: Les Misérables. Parecchie parole si sono spese a proposito dividendo pubblico e critica sull'esito; tuttavia ha ottenuto 8 nomination agli Oscar tra cui anche quella di Miglior film. Oltre ai costi anche le riprese sono state difficili mettendo a dura prova gli attori che, oltre a dimostrare di saper cantare, dovevano recitare intere arie cercando di non sbagliare perché registrate in presa diretta. Quindi se anche una sola nota era sbagliata bisognava ricominciare tutto dall'inizio costringendo anche gli altri colleghi presenti in quella scena a farlo. Il risultato però è un'opera davvero ben costruita, in cui i tagli fatti per forza di cose al romanzo sono pertinenti e non escludono parti rilevanti. Personalmente vi consiglio di guardarlo, poi mi saprete dire!
Pertanto non spaventatevi se vi propongono la visione di un musical, considerandolo un genere di serie B, perché non lo è e anzi spesso riesce a dare risultati migliori e più efficienti di tanti altri generi; volete tirarvi su di morale? guardate Cappello a cilindro, vi sentite particolarmente psichedelici? è il turno di Quarantaduesima strada. Per i più romantici ecco pronto Greese e per chi si sente coraggioso e disposto a guardare il musical da un nuovo punto di vista non rimane che sedersi sul divano in compagnia di Jean Valjean e Javert di Les Misérables.
Et voilà è finito questo breve excursus nel mondo tutto particolare del musical; vi lascio con il mio giudizio proprio sull'ultimo film. Buona visione!
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sabato 7 giugno 2014

Trucco, trucco e ancora trucco

Mes chéres come promesso eccovi il secondo post della giornata. Per lasciare il giusto spazio al precedente, che spero abbiate letto tutti!, ora vi voglio parlare di effetti speciali, nello specifico del trucco, usati nel cinema. Poco tempo fa se vi ricordate vi avevo accennato ad altri tipi di effetti, quelli relativi all'animazione; bene oggi invece continuo su questo filone ma concentrandomi sulla parte del make up. 
Partendo proprio dalle origini è possibile notare che esso è sempre stato presente in modo molto "attivo" nella settima arte; certo inizialmente solo per accentuare sguardi, espressioni ed emozioni e serviva dunque a sopperire la mancanza del parlato. Gli attori dovevano comunicare attraverso i movimenti del corpo ed il volto assumeva il ruolo centrale; di conseguenza era necessario anche un trucco che fosse all'altezza. Per farvi qualche esempio basta ricordare un qualsiasi film di Chaplin in cui compare il suo famoso personaggio Charlot: grazie ad un abbigliamento ad hoc ed un make up altrettanto studiato nessuno può scordarsi di lui; altro è il Nosferato di Murnau, personaggio demoniaco dai lunghi artigli e le vistose occhiaie sotto gli occhi e chi non può scordarsi del viso angelico e i grandi occhi di Lillian Gish, musa di Griffith?
Grazie ad un po' di fondotinta chiaro e tanta matita e ombretto scuro si garantiva profondità allo sguardo capace, di volta in volta, di spaventare, sedurre o rattristare lo spettatore. 
Con gli anni '50-'60-'70 e l'avvento di generi quali fantascienza, horror e fantasy si ha la vera evoluzione del trucco all'interno della settima arte; effetti speciali sempre più particolari e difficili vengono richiesti ai professionisti del settore che non possono più limitarsi a scegliere la giusta tonalità di colore sulla loro palette, devono anche sapere creare ferite, simulare invecchiamenti e trasformare un volto umano in un muso animale. Il Frankenstein di Fisher, uno qualsiasi dei mostri presenti nel famosissimo film di Scott Alien, o le scimmie di Schaffner sono esempi più che noti.
Arrivando ai giorni nostri invece la tecnologia ha fornito un enorme contributo al trucco permettendo effetti visivi mai visti prima; maschere di silicone ottenute da calchi in gesso del volto umano o di altre parti del corpo, modellini che arrivano ad avere dimensioni di metri e che permettono riprese particolari di oggetti che poi risulteranno essere di altezze vertiginose e infine l'uso (già descritto nel post omologo) della CGI. Per citarvi un esempio su tutti la trilogia di Jackson Il signore degli anelli.
Unendo insieme ore e ore di trucco e l'utilizzo della tecnologia digitale si ottengono meraviglie: orde di orchi sanguinari, draghi senza squame e, naturalmente, creature quali Gollum.
Potrei dilungarmi oltre esponendovi ogni singolo mutamento degli effetti speciali, ma non è questo il mio intento; quello che vorrei mostrarvi è invece una parte del "behind the scenes" di ogni film. Spesso coloro che si occupano della parte del trucco o degli effetti speciali in generale non trovano un giusto riconoscimento se non in occasioni particolari come i premi Oscar o se il film raggiunge un successo elevato. Mi sembra pertanto doveroso citarli indirettamente raccontandovi un po' del loro lavoro; sta a voi decidere se è valsa la pena leggere tutto ciò.

La bottega dei suicidi più amata al mondo!

Oggi, carissimi, c'è una novità! Doppio post tanto per iniziare e soprattutto il primo, quello che vi propongo qui di seguito, non l'ho scritto io bensì un qualcuno molto, ma molto appassionato di cinema che ha deciso di scrivere una recensione su un film che abbiamo visto l'altra sera. Sapevo che il film avrebbe colpito in pieno e che la conseguente recensione sarebbe stata anch'essa una bomba! Sono quindi molto felice di cedere per una volta lo scettro (ora devo stare attenta ho dei concorrenti!) e dare spazio a chi dedica il proprio tempo libero per scrivere di cinema. 
Della serie "piccoli critici crescono" ecco a voi il commento al film di Patrice Leconte La bottega dei suicidi.
In questo post pirata (Ringrazio Gioia per lo spazio) vi parlerò di un film d'animazione, La bottega dei suicidi. Il film racconta la storia di Alain e la sua famiglia proprietari, per l'appunto di un negozio in cui si trova tutto l'occorrente per andare all'altro mondo. In una città popolata da persone grigie, depresse e senza scopo, l'unico barlume di felicità viene trovata nella morte. Le cose cambiano con la nascita di Alain che con la sua felicità riuscirà a cambiare tutto il mondo.
Questa pellicola parla di un cambiamento interiore. L'entusiasmo (dal greco: [en] dentro [thèos] dio) di cui è portatore Alain modificherà l'esistenza di tutti... magari anche la vostra!
Film assolutamente da vedere
Non aggiungo nient'altro se non il giudizio finale in mini-me che credo rispecchi (forse un po' di più perché come avete capito Amo l'animazione!) quello di chi ha scritto la recensione e un grazie di cuore! 
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giovedì 5 giugno 2014

Viaggio interiore in Cloud Atlas

Rieccomi qua! Oggi ho deciso di parlarvi di un film che fino all'altro giorno mi sono sempre rifiutata di vedere (non so neanche io spiegare bene il perché..) ma che grazie all'oculato consiglio di un amico finalmente ho guardato trovandolo molto interessante. Essendo di per sé molto complicato farne un'analisi risulta altrettanto complesso ma ci proverò! La pellicola in questione è Cloud Atlas di Tom Tykwer e dei fratelli Wachowski.
La trama di divide in sei storie che si svolgono in sei epoche diverse ma contemporaneamente, con gli stessi protagonisti che, di conseguenza, sono collegati tra loro anche se inconsciamente. La prima, in ordine temporale, si svolge nel 1849 durante un viaggio in nave nel Pacifico, si passa poi alla Scozia del 1936, ad un'inchiesta giornalistica nel 1973 in California, si arriva nel 2012 in una casa di riposo per poi passare nel 2144 alla Neo Seoul e infine al 2321 e alla sua società primitiva sopravvissuta a un olocausto nucleare. Naturalmente tutte queste storie di svolgono in parallelo creando un intreccio continuo tra le varie epoche i suoi personaggi. In ognuna di esse spicca un protagonista "marchiato", se così si può dire, da una voglia a forma di cometa che ha il compito di cercare di cambiare il mondo in cui vive in modo da lasciare un futuro migliore. 
Raccontarvi la trama è molto difficile, quindi ve ne do un'idea a grandi linee.. (sempre seguendo l'ordine temporale sopra riportato).
1. Un avvocato americano si batte contro la schiavitù dopo essere stato salvato proprio da un nero.
2. Un giovane compositore viene incastrato dall'autore per cui lavora.
3. Una giornalista cerca di smascherare un complotto per la realizzazione di un reattore nucleare.
4. Un ormai attempato editore viene internato in una casa di riposo e organizza la fuga con i suoi compagni.
5. Un clone si unisce ai ribelli dopo aver scoperto come lei e i suoi simili vengono usati.
6. Un uomo di una società tornata all'età della pietra entra in contatto con un membro di una civiltà tecnologicamente evoluta che lo porta a ribellarsi alla tribù dominante.
Le sei storie sono collegate tra loro, non soltanto dai personaggi, ma anche da piccoli dettagli che emergono man mano nel corso della narrazione come a voler mostrare che esiste un fil rouge di fondo che lega tutto insieme all'interno di un disegno più grande; basta una melodia, un diario a far scattare la scintilla nell'inconscio dei protagonisti. Anche se non ne conoscono la ragione sanno che quel qualcosa è importante per loro perché rimanda ad altro. Questo altro è prettamente interiore, nato e sviluppatosi nella coscienza del singolo che cerca di adoperarsi per migliore il futuro; l'azione fisica, la rivolta porta quindi concretamente a cambiare il corso degli eventi. Ecco allora manifestarsi una sorta di reincarnazione continua dei personaggi, un vivere la storia per godere dei frutti piantati in precedenza.
Tutto questo, a livello narrativo, è reso in maniera particolarmente efficace dall'uso fatto del montaggio. Ricorrendo a quello adottato da Hitchcock in Psyco i registi saltano, molto agilmente, da un'epoca all'altra servendosi come elemento di collegamento di un oggetto, una casa, una sinfonia che richiama il precedente periodo con quello successivo. Ecco allora che l'abitazione del musicista scozzese del '36 diventa la casa di cura nel 2012, i reattori nucleari del '73 si trasformano nel luogo tanto temuto e fonte per scoprire le colonie oltremondo nel 2321 e il diario dell'avvocato ottocentesco passa dalle mani del giovane compositore (1936) a quelle del suo compagno ormai anziano nel 1973 e così via. 
La visione del film richiede particolare concentrazione proprio per la ricchezza dei particolari che via via i registi forniscono per comprendere l'intera storia; solo uno spettatore attento riesce a coglierli e mai tutti alla prima visione, rassegnatevi! 
Realizzare un'opera di tale portata richiede inoltre un cast all'altezza (tutte grandi e capaci star) nonché registi altrettanto bravi, dotati di un ampio sguardo d'insieme che li permetta di guardare oltre.
Detto ciò vi consiglio caldamente di guardarlo quando siete belli svegli! 
Vi lascio con il mio giudizio.. bisous      
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lunedì 2 giugno 2014

Quei bravi ragazzi di Scorsese

Bonsoir mes chers! Che ne dite se questa volta parliamo di gangster movie? Direi proprio di sì visto che il tema lo scelgo io!! Per non deludervi ho quindi in serbo un film davvero strepitoso, fatto da uno dei più grandi registi in materia: Martin Scorsese con Quei bravi ragazzi.
Ispirato al libro dedicato alla storia del pentito Henry Hill il film ne racconta la vita, o meglio, quella parte di vita davvero interessante. Henry cresce in un quartiere dove la malavita italiana la fa da padrona rubando, rivendendo e guadagnando un sacco di soldi senza faticare poi troppo; di conseguenza anche il piccolo protagonista sogna un giorno di entrare a farne parte per non dover mai lavorare solo per ottenere uno stipendio da miseria. Inizia quindi come garzoncello al soldo del potente capo locale Paul da cui riceve in cambio protezione, qualche mancia e soprattutto la certezza di non venir mai intralciato da nessuno. Gli anni passano e Henry cresce e con lui anche la sete di potere e i soldi accumulati; affiancandosi ad altri due, Jimmy e Tommy, la vita criminale intrapresa acquisisce anche una piega alquanto violenta che mostra al protagonista come si è disposti a tutto pur di ottenere quello che si vuole. Tutto sembra andare a gonfie vele: i soldi non mancano, specialmente dopo il colpo del secolo all'aeroporto JFK, dal matrimonio con Karen sono nate due figlie, ha un'amante (in seguito se ne farà anche un'altra) e la famiglia dei "bravi ragazzi" lo protegge. Ma, come sempre, il sogno è destinato a terminare e Henry finisce in galera per spaccio di droga, giro in cui viene coinvolto da Jimmy nonostante gli avvertimenti di Paul, e tutto va a rotoli; casa, soldi, amanti spariscono. Da questo momento diventerà una persona qualunque come egli stesso si definisce.
Scorsese realizza quello che viene considerato come uno dei migliori film gangster nella storia del cinema, dove la violenza viene mostrata solo marginalmente perché quello che interessa è concentrarsi sullo stile di vita delle bande mafiose. Quei cosiddetti "bravi ragazzi" che si giurano fedeltà l'un con l'altro salvo poi, nel momento cruciale, estrarre la pistola e eliminarsi a vicenda. Attraverso un'attenta gerarchia fatta di rigorose regole alle quali è vietato trasgredire pena, appunto, il dono di un proiettile e una fossa si crea una micro società all'interno della quale si organizzano colpi, esecuzioni e contrabbandi vari all'unico scopo di arricchirsi. L'esame che il regista fa di questo tipo di famiglia è quasi uno studio antropologico di usi e costumi tipici rintracciabili in qualsiasi altra società mafiosa per evidenziarne i tratti salienti; in ognuna c'è un capo gruppo che dirige tutti gli altri e si incarica della loro protezione e di quella dei loro cari, seguono poi i vari vice, le pedine sacrificabili e infine quello che promette bene ma nel momento cruciale tradisce tutti per salvarsi la vita.
Sembra quasi, guardandolo, di ricordare un'altra grande opera appartenente a questo genere, Il Padrino di Francis Ford Coppola che, come ha egli stesso sottolineato, è un film sulla famiglia e non sulla mafia. Entrambi hanno punti in comune sia per quanto riguarda lo stile esecutivo (concentrarsi appunto sulle relazioni umane piuttosto che sulla violenza vera e propria) che per i protagonisti; De Niro infatti compare nel secondo film di Coppola Il Padrino: parte II. 
Non è così facile come sembra realizzare una buona opera su di un tema delicato come la mafia perché ricco di sfaccettature tanto diverse quanti sono i vari gruppi di appartenenza; solo dei grandi registi ci riescono, Coppola e, in questo caso, Scorsese hanno centrato l'obiettivo!
Come promesso invece da oggi introduco una novità (consigliatami da un amico e che ha richiesto ore di dibattito su quale fosse la scelta migliore!): il mio personale indice di gradimento di un film. Generalmente i critici usano le famose stelline da 1 a 5 per segnalare se il film fa schifo o è un capolavoro, io invece, giusto per non essere egocentrici, le ho sostituite con delle mini-me! Vi ricordo che questo è il mio giudizio che non è per forza di cose oggettivo, ma vi mostra solo se una data pellicola mi è piaciuta o no..
4 e mezzo