venerdì 23 ottobre 2015

Inside Out: quando le emozioni escono allo scoperto

Bonjour à tout le monde! E' vero, è da quasi un anno che non scrivo più sul blog, non perché me ne sia dimenticata, anzi, ma un po' per imprevisti vari e un po' per "mancanza d'ispirazione" ho sempre rimandato fino ad ora. Adesso però sono pronta a tornare a postare con, spero, un po' più di regolarità...
Il film che ho scelto per il ritorno appartiene al genere che più preferisco in assoluto e, guarda caso, ha per protagonista proprio una creatura con il mio stesso nome (lo ammetto mi sento molto importante!)... Si tratta dell'ultimo lavoro realizzato dalla Pixar: Inside Out.
La storia fin da subito segue parallelamente lo sviluppo di due vicende: da una parte quella di Riley, la bimba attorno a cui ruota la vicenda, dal momento della sua nascita fino all'età attuale ovvero 12 anni, e dall'altra quella di Gioia, una delle emozioni, quella che guida le altre, presenti nella mente della bambina. Tutta la vita di Riley si svolge basandosi su ciò che le cinque emozioni, oltre a Gioia anche Tristezza, Disgusto, Rabbia e Paura, ritengono sia giusto per lei, proteggendola quando occorre e rendendola felice nella maggior parte dei casi. Ogni volta nella mente della bimba si crea un ricordo, associato al colore dell'emozione che l'ha scatenato, che viene raccolto da uno dei cinque e immagazzinato nella memoria a lungo termine per far sì che si creino delle piccole "città" interiori perfettamente funzionanti in cui tutto va bene e che rendono Riley felice.
Ma cosa succede quando contemporaneamente i genitori della piccola scelgono di trasferirsi e Tristezza decide di voler essere più partecipe nello sistemare i ricordi? Un disastro. D'un tratto tutte le sfere contenenti i ricordi della bambina si trasformano assumendo la connotazione triste dell'emozione che l'ha toccato e, di conseguenza si modificano alterandone la percezione avuta. A ciò si aggiunge il cambio di città con la conseguente perdita di amici e luoghi cari che mandano Riley in completo subbuglio e la portano a compiere gesti che mai avrebbe fatto.
Tocca a Gioia cercare di risolvere la situazione, ma non sarà sola perché avrà un'assistente che rivelerà capacità nascoste...
Tra tutti i film realizzati finora dalla Pixar questo è certamente il più complesso per struttura e contenuti; la domanda iniziale che si è posta il team prima di iniziarne la realizzazione, "se le emozioni avessero emozioni", ha dato origine ad un vero e proprio mondo interiore, con una sua complessa struttura organizzativa in cui se qualcosa va storto intoppa l'intero sistema. Le storie delle due protagoniste (Gioia e Riley) si svolgono, intrecciandosi, parallelamente e nessuna delle due può esistere senza l'altra; in questo modo si attua un continuo botta e risposta che modifica costantemente la situazione creando un dinamismo che non prevede punti morti. Ad un'azione ne corrisponde un'altra che crea un determinato esito, ma se nel frattempo una parte di tale azione subisce una modifica allora il finale sarà totalmente diverso da come doveva essere. Questo mostra come sia complicata la mente e la psiche umana, mostra come non ci sia un'unico modo d'agire, la strada da percorrere non è mai dritta ma piena di curve e incroci che ne cambiano costantemente la direzione. 
La scelta di focalizzarsi su cinque emozioni chiave rafforza tale complessità e dà vita ad una riflessione su ciò che si cela dentro ognuno di noi. La rappresentazione dei mondi interni a Riley è estremamente varia: si inizia dalla memoria a lungo termine in cui vengono raccolte tutte le sfere contenenti i ricordi, lunghe file di scaffali meticolosamente ordinati per poi passare a un mondo tutto colorato e sfavillante legato alla prima infanzia; si arriva così al mondo più pericoloso del pensiero astratto in cui l'immaginazione si realizza, fino al luogo dedicato alla produzione dei sogni e degli incubi. Esiste però anche un posto buio e cupo, il baratro della memoria nel quale finiscono i ricordi dimenticati che lentamente svaniscono. 
Tutte queste diverse realtà fanno parte di un unico, complesso ingranaggio: l'uomo. Esse lo guidano, lo condizionano (inteso nel senso positivo) e lo accompagnano nel suo percorso di crescita; non a caso nel finale si vede come il pannello di controllo usato dalle emozioni viene sostituito con uno più grande e con più comandi per sopperire alle future necessità. 
Non era per niente facile realizzare un'opera del genere senza scadere nella banalità o perdersi nella complessità dell'impresa; sicuramente il genere animazione permette di "osare" molto di più coinvolgendo qualsiasi fascia d'età che, secondo le proprie capacità, coglierà ognuno uno strato diverso della riflessione.
                                                                                                                                                    5 




sabato 10 gennaio 2015

Big Eyes ovvero Burton si è accecato

Bon soir à tout le monde! Qualche giorno fa ho visto un film sul quale avevo posto molte aspettative, non alte, ma pur sempre delle aspettative. Mi dispiace dirlo ma non sono state soddisfatte e la cosa mi rattrista (passatemi il termine) perché l'opera in questione è l'ultima realizzata da uno dei miei registi preferiti... vi dò un aiutino: è un outsider che ha iniziato la sua carriera presso la Disney. Indovinato? Esatto è proprio lui, Tim Burton e il film che mi ha perplesso è Big Eyes.
La pellicola è un biopic basato sulla storia dei coniugi Keane e del loro improvviso successo artistico. Margaret, donna divorziata e con una figlia a carico, dipinge per passione e necessità un'infinita serie di bambini dagli occhi sproporzionatamente grandi che vende, quando ci riesce, a prezzi ridicoli. Questo finché non incontra Walter che sposa poco dopo affidandosi completamente a lui e al suo mondo fittizio basato sulla menzogna. E' lui infatti che vende, grazie alla sua verve dinamica e accattivante, i quadri dei "piccoli orfanelli", come gli definisce, modificando un piccolo quanto importante dettaglio: si appropria del merito... Con gli anni riesce persino a convincere la moglie a credere a ciò, relegandola in soffitta allo scopo di farle dipingere giorno e notte dipinti su dipinti e quando quest'ultimi raggiungono prezzi non più accessibili a tutti si mette a commercializzarne riproduzioni, poster, cartoline e quant'altro. Tutto questo dura per una decina d'anni finché un giorno Margaret, aiutata dalla figlia, non apre davvero gli occhi, quegli stessi occhi che dipinge grandi perché sono lo specchio dell'anima, e se ne va di casa. Non solo! Fa causa a Walter rivelando al mondo intero che la vera artefice delle opere è lei; l'unico modo per dimostrarlo è provarlo pubblicamente...
La storia della vicenda dei Keane è interessante e di sicuro ebbe un effetto mediatico di notevole importanza; la domanda però che io mi pongo è: dov'è finito in tutto questo Tim Burton? Dov'è finito il regista di capolavori come Big Fish, Edward mani di forbice o La sposa cadavere? Sembra, non solo in questo film ma anche in quelli più recenti, che abbia perso la sua bussola interiore, quello strumento che dagli esordi della sua carriera lo ha guidato verso una carriera sfolgorante; non è più (purtroppo) quel bambino che guardando film horror in tv rideva e si divertiva... La vena gotica che ha sempre in qualche modo caratterizzato il suo stile si è affievolita, dove non è del tutto scomparsa, lasciando il posto al grottesco e al banale. L'outsider, suo alter ego sullo schermo, si è integrato nella società che lo rinnegava.
Nello specifico analizzando questa pellicola dal punto di vista stilistico (contenutisticamente invece essendo un'opera biografica si presume che segua fedelmente, almeno al 90%, la vera vicenda) si ha la sensazione che essa sia "piatta", priva di spessore, che manchi di quel qualcosa imprescindibile per attirare l'attenzione - almeno la mia - dello spettatore. Sì, certo i due protagonisti sono grandi attori (per fortuna!), ma vengono ugualmente sviliti nei loro ruoli, ridicolizzati perché portati all'eccesso nei tratti che li contraddistinguono. L'anima di cui parla Margaret quando spiega il perché dipinga solo bimbi con grandi occhi qui non è presente, rimane intrappolata nella tela della pellicola. 
Non so cosa sia successo a quel ragazzino che a 12 anni scelse di andare a vivere con la nonna perché si sentiva ormai incompatibile coi genitori e che adorava terrorizzare i suoi coetanei raccontandogli l'arrivo imminente degli alieni... forse si sarà stufato della settima arte? Non penso, lo spero perché c'è bisogno di figure come lui, il "vecchio" lui, per mantenere attivo il cinema. Io almeno continuo a confidare nelle sue potenzialità..
                                                                                                                                       2 e mezzo