martedì 23 febbraio 2016

Rhytmus 21: quando il cinema diventa sperimentale

Bonjour carissimi! Oggi ho deciso di portarvi indietro nel tempo parlandovi di un film molto particolare. Lasciamo infatti perdere per un momento tutto quello che è cinema "moderno" per tornare ai primi anni del '900, nel 1921 per l'esattezza, e scoprire un curioso esempio di film sperimentale... 
In questi anni infatti, come ben saprete, spopolano nell'arte le avanguardie: futurismo, surrealismo, cubismo, dadaismo, astrattismo.. che stravolgono completamente i canoni artistici vigenti proponendo qualcosa di nuovo e innovativo. Questo accade anche nel mondo del cinema (eccezione per il movimento futurista che stranamente non fece uso di tale mezzo); alcuni artisti si improvvisano registi per dare forma a opere che definire strane è poco. A seconda del movimento di appartenenza la pellicola filmica subisce tagli improvvisi, graffi, sovraesposizioni di luce e chi più ne ha più ne metta...
Mi sembrava quindi cosa interessante proporvene un esempio! Il film che ho scelto per voi è dunque Rhytmus 21 di Hans Richter.
Questa volta non c'è una trama da introdurre in quanto risulterebbe un'operazione assai difficile. Mi limiterò perciò a raccontarvi qualcosa di questo artista e di come ha deciso di realizzare l'opera.
Richter è un artista, uno dei massimi sperimentatori dell'estetica cinematografica nonché un teorico della settima arte; inizia lavorando su esperimenti pittorici di tipo astratto perché sente l'esigenza di articolare lo spazio figurativo in un movimento che non si limiti ai margini canonici del quadro, ma che sbordi e fuoriesca. Ecco allora presentarsi l'opzione cinema! Nei suoi film, per lo più cortometraggi (vi assicuro che dopo aver visto 20 minuti di un qualche film astratto non capite più dove siete!) l'artista dà vita a esperimenti di composizione di oggetti in movimento collocandoli, in un secondo tempo, nei contesti più vari di carattere sociale o satirico. Quello che interessa a Richter è la ricerca di un linguaggio costituito da forme basilari che compaiono sullo schermo; facendo riferimento ai pittori cubisti riprende le tecniche di cutout commiste a grafica e disegni per creare delle sequenze di quadrati e rettangoli che si espandono e diradano unendole a dei disegni lineari. Così facendo scopre che è possibile progettare la trasformazione dinamica di segni nel tempo, un tempo che ben si può collegare anche all'espressione musicale in quanto il ritmo altro non è che quella sensazione che può provocare ogni espressione del movimento nel cinema. Infatti, se si nota, le musiche che sceglie sono molto particolari e inusuali, ma riescono perfettamente a integrarsi con il contenuto visivo.
Tutto questo, detto così, può apparire complicato e difficile da capire, ma vi assicuro che appena vedrete il film ogni cosa diventerà chiara... Il cinema, soprattutto quando si parla di avanguardie, è un mondo da scoprire a cui ognuno dà la propria personale interpretazione; una successione di figure geometriche accompagnate da una musica a volte anche fastidiosa (esistono sia la versione muta che quella sonora) può non suscitare nessuna reazione come aprire le porte ad una serie di collegamenti ad altre realtà. Che cosa saranno quei quadrati? Cosa contengono se contengono qualcosa? Muteranno forma o rimarranno statici? E se si scontrano tra loro cosa accade?
Non esiste una risposta giusta e spesso lo stesso autore dell'opera non ne dà una sua interpretazione proprio perché lascia che sia lo spettatore a farlo. Di conseguenza neanche io questa volta metterò il mio giudizio in lanterne lasciando a voi piena libertà... buona visione!




martedì 16 febbraio 2016

The danish girl: la metamorfosi di Lili

Bonsoir à tout le monde! Questa sera parliamo di un altro film candidato a 4 premi Oscar, tutti assolutamente azzeccati. Si tratta dell'ultimo lavoro di Tom Hopper: The danish girl.
Einar Wegener è un pittore paesaggista, molto affermato, che vive con la moglie nella Copenhagen dei primi anni del '900. La coppia conduce una vita in apparenza serena divisa tra eventi artistici e privato nel quale cercando di mettere su famiglia. Entrambi pittori sono sempre in sintonia e si sostengono ogni qualvolta c'è un insuccesso. Un giorno Gerda, moglie di Einar, chiede al marito aiuto per riuscire a terminare un quadro raffigurante un'amica ballerina e gli domanda perciò di indossare abiti femminili per poter meglio realizzare il personaggio. Da quel momento inizia un gioco tra i due che continua a un evento mondano in cui Einar, con la complicità di Gerda stessa, si presenta vestito da donna. Prende così forma la figura di Lili Elbe che man mano acquisterà sempre più spessore nella vita della coppia.
Il regista Tom Hopper, dopo le notevoli prove de Les Misérables e Il discorso del re, si cimenta con un'altra sfida impegnativa; basandosi sul romanzo di David Eberhoff mette in scena la storia di Lili Elbe, una delle prime persone ad essere identificata come transessuale e anche una delle prime ad essere sottoposta a un intervento chirurgico di riassegnazione sessuale. Per interpretare una figura così complessa e delicata sceglie Eddy Redmayne, attore dalla spiccata recitazione espressiva, capace di restituire molto bene sullo schermo tutte le emozioni interiori provate dal personaggio.
Lili infatti presenta una serie di sfumature ben delineate; fin dall'inizio, da quando ovvero è ancora Einar Wegener, si nota il suo desiderio, molto forte, di palesarsi. Emerge infatti il rifiuto di Einar per il suo corpo, per ciò che indossa; non si sente a suo agio con gli altri tanto da evitare tutti i possibili eventi mondani. Ma quando inizia a vestire i panni di Lili tale insicurezza non svanisce del tutto, sente che in lui/lei c'è qualcosa di diverso; interroga diversi medici per capire l'origine di ciò, ma è costretto a fuggire per non essere rinchiuso come schizofrenico o anormale. Lili c'è, esiste e prende sempre più forma nel corpo di Einar, ma come mostrarla? Osservando le altre donne, copiandone di nascosto i gesti, le pose, il modo di relazionarsi agli uomini. Non basta semplicemente indossare una sottoveste in seta e scarpe col tacco; bisogna essere donna in tutti i sensi. E qui entra in gioco Gerda, fedele moglie e amica, che neanche per un solo istante lascia Einar nella sua metamorfosi in Lili, supportandolo in ogni decisione per quanto pienamente consapevole che così facendo perderà suo marito.
Anche lei, al pari di Lili, è una figura complessa che Hopper mette ben in evidenza. Fin da subito si mostra come il talento artistico del marito oscuri il suo e come quest'ultimo sbocci pienamente nel momento in cui il soggetto dei suoi quadri inizia a essere Lili (quasi una figura ingombrante a volte). Gerda però non viene mai messa in secondo piano; lei è lì, presente in ogni momento anche quando non appare fisicamente nella scena. Einar non ce l'avrebbe mai fatta senza il suo supporto, probabilmente non avrebbe neanche mai preso la decisione di operarsi se lei non l'avesse incoraggiato ad essere se stesso fino in fondo senza nascondersi più. Il personaggio di Gerda è sì forte, ma anche estremamente fragile; il suo bisogno di diventare madre e la ricerca costante di esserlo nascondono una necessità di sentirsi donna appieno (un equivalente di mostrarsi in pubblico Lili per Einar), cosa che non potrà mai avvenire in tali circostanze; nonostante tutto però sceglie di rimanere federe al marito fino in fondo, sacrificando la sua felicità. Alla fine, in un modo o nell'altro (e non è detto che sia positivo), entrambi troveranno la serenità.
Lili e Gerda, ognuna a suo modo, sono due figure particolari; sole nel portare avanti le proprie convinzioni in una società che non è ancora pronta per accettarle e che pertanto le respinge isolandole, ma non per questo si lasciano scoraggiare, anzi le rendono ancora più forti e combattive!
                                                                                                                                                    4

lunedì 8 febbraio 2016

La migliore offerta: un uomo al centro dell'arte

Bonsoir!! Interrompo un momento i film dedicati alla notte degli Oscar per fare un salto nell'arte e proporvi un'opera di un paio d'anni fa molto interessante e per niente scontata. Si tratta di La migliore offerta di Giuseppe Tornatore.
Il richiestissimo e noto battitore d'aste, Virgil Oldman (un nome un programma!), è un uomo in apparenza tranquillo; vive solo, ha una mania per il controllo e il pulito, indossa sempre guanti ed è molto pignolo nel suo lavoro. Con la complicità dell'amico Billy nel corso degli anni è riuscito a impossessarsi di una fortuna in quadri; è il proprietario infatti di una vasta collezione di ritratti femminili custoditi gelosamente in una stanza di casa sua a cui solo lui ha accesso. Un giorno riceve una strana telefonata da parte di una ragazza che vuole sia lui a occuparsi della valutazione degli oggetti che possiede per poterli vendere. Seppur con riluttanza Virgil accetta l'incarico, ma non riesce mai a incontrarsi con la giovane la quale, affetta da agorafobia, preferisce tenere con lui un rapporto telefonico. Tuttavia con il passare dei giorni la relazione tra i due cambia, diventando più intima e personale finché Claire, questo il nome della ragazza, si mostra a Virgil. Da questo momento il mondo del battitore d'aste cambia completamente; non più freddo e meticoloso, ma più attento agli altri (Claire soprattutto) e ai sentimenti. Ciò avrà notevoli conseguenza sul suo futuro prossimo.
La migliore offerta è forse il film più internazionale di Tornatore: girato completamente in inglese vanta un cast di tutto rispetto ad iniziare dal protagonista Virgil/Geoffrey Rush e dal suo amico Billy/Donald Sutherland. Lo stile stesso della pellicola si nota essere molto più "europeo" che italiano; scorrevole, senza punti morti, accattivante quando serve e con un pizzico di mistero che permane fino alla fine.
Tema centrale è l'arte; quando Virgil ci porta nella sua stanza segreta possiamo ammirare numerose opere raffiguranti soggetti femminili che vanno dal XV al XX secolo. Tra gli artisti che compaiono si possono ammirare Raffaello, Tiziano, Dürer, Rubens, Goya, Renoir e molti altri. Le signore dei dipinti sono inoltre le uniche con cui il protagonista abbia mai intessuto una relazione; un amore puramente platonico, ma pur sempre sincero e incondizionato. Non a caso quando Virgil riceve la telefonata di Claire e accetta di lavorare per lei il suo modo di rapportarsi, non solo a una donna, ma agli altri cambia completamente; tutte le regole vengono infrante, l'interessa passa da una figura su tela a una in carne e ossa. 
Per guidarci un questa specie di metamorfosi e di evoluzione, del protagonista ma anche del film, Tornatore escogita un particolare espediente. Durante il primo sopralluogo alla villa di Claire il battitore d'aste trova alcuni pezzi di uno strano congegno che fa esaminare ad un amico; nelle successive visite ne trova molti altri che ben presto scopre appartenere a un automa costruito da Jacques de Vaucanson, illustre inventore del XVIII secolo capace di stupire tutti con le proprie creazioni. Man mano che la storia procede l'automa prende forma, due cose completamente diverse ma intrecciate; più quest'ultimo viene costruito più noi spettatori riusciamo a capire il film (la trama non è così semplice come appare) fino all'epilogo conclusivo.
Tutto infatti non è altro che un gioco tra realtà e finzione; bisogna solo capire dove finisce una e inizia l'altra e ciò si può fare cogliendo attentamente i dettagli che il regista dissemina durante il film. Il celarsi di Claire è uno stimolo segreto alla scoperta, scoperta che Virgil fa a sue spese, ma anche il nascondere le opere d'arte agli occhi del mondo per un uso privato fatto dall'uomo funge da stimolo perché esse diventino di altri.
Virgil, che all'inizio della storia ci appare come un uomo perfetto ma solo, finisce per rimanere un uomo solo, ma meno perfetto, una creatura in balia di una tempesta di emozioni che lo travolgono lasciandolo stordito a riflettere sul suo domani.
                                                                                                                                      3 e mezzo 

venerdì 5 febbraio 2016

Revenant: la sfida di DiCaprio

Eccomi di nuovo qui! 
E' tempo di iniziare a parlare un po' dei film in lizza, per una nomination o per l'altra, all'Oscar, la famosa statuetta placcata oro sogno o incubo di molti nel mondo della settima arte. Oggi in particolare ho scelto di proporvi il film su cui forse si riversano le maggiori attese, se non altro per il suo protagonista notoriamente sfortunato in tale circostanza... Avete capito a quale mi riferisco? Esatto: Revenant di Alejandro González Iñárritu.
Anni '20 del 1800. Un gruppo di soldati americani, cacciatori di pelli, viene attaccato da degli indiani che vogliono riprendersi ciò che è loro. In pochi, una dozzina, si salvano e guidati da Hugh Glass, l'uomo che meglio di tutti conosce quelle terre impervie e pericolose, cercano di far ritorno al loro fortino. Nascosto il bottino in attesa di tempi migliori il manipolo si mette in cammino, ma ben presto Hugh viene attaccato e quasi ucciso da una femmina di Grizzly. In fin di vita, per volere del comandate, viene trasportato fin quando possibile poi lasciato in custodia al figlio, a un giovane e ingenuo soldato e al cacciatore Fitzgerald che cerca ben presto, nonostante la promessa fatta, di liberarsi di lui per raggiungere gli altri e riscuotere il premio promesso. Lasciato solo, dopo aver assistito all'omicidio del figlio per mano dello stesso Fitzgerald, a Hugh non rimane che la sua voglia di vendetta per non soccombere alla morte e continuare a lottare...
La realizzazione del film ha inizio già nel 2001 e, dopo vari tentativi andati a male e più sostituzioni, si è giunti alla regia di Iñárritu che fin da subito ha impresso il suo stile all'opera. La trama si ispira, almeno parzialmente, alla vita del cacciatore di pelli Hugh Glass che, nonostante le numerose e mortali ferite riportate dopo l'attacco di un Grizzly, è riuscito a sopravvivere. 
Le riprese sono state effettuate tra il Canada e la Terra del Fuoco in Argentina, ambientazioni ottimali per descrivere e ricreare al meglio i paesaggi in cui si è mosso il cacciatore; il clima prevalentemente freddo e rigido (le scene sono state girate in autunno e in inverno) ha sfiorato minime di -30° mandando persino in tilt le camere degli operatori. Tutto ciò però ha contribuito a rendere la recitazione del cast molto più convincente. Inoltre, per volere dello stesso regista, non si è fatto ricorso né alla CGI né al green screen per far sì che gli sforzi e la fatica fatta fossero davvero reali.
Un grande aiuto arriva anche dal direttore della fotografia, Lubezki; la pellicola infatti è interamente girata con luce naturale e prevalentemente in esterno (non a caso una delle varie Nomination agli Oscar è proprio per la fotografia). Magistrali sono alcuni scorci, i tramonti con quel bagliore di fuoco e l'immortalare la forza degli elementi come il fiume in cui si getta Glass per scampare ad un assalto indiano. La natura viene qui esaltata in tutta la sua magnificenza e crudezza.
Una parentesi però va dedicata (altra candidatura) al protagonista: Leonardo DiCaprio. Non serve spendersi sulla sua capacità attoriale ormai consolidata e assicurata; anche in questo caso dà una performance più che eccellente entrando completamente nei panni di Hugh Glass. Tra carichi di oltre 45 kg sotto forma di pellicce di alce e orso e bronchiti provocate dal lavorare a -40° DiCaprio rivela la vera essenza, quella più intima dettata dalla rabbia e dal desiderio di vendetta, del cacciatore. Non dimentichiamo poi che per 3/4 del film non proferisce parola e l'unico suono che emette è un roco gorgoglio; tutto si gioca sulla fisicità a cui spetta il compito di esprimere un ampio spettro di emozioni. Solo, mortalmente ferito, questa sottospecie di supereroe sopravvive trascinandosi sui gomiti, mangiando erba, non congelandosi dopo un lungo bagno nel fiume ghiacciato e uscendo persino illeso dopo un salto in un burrone con conseguente schianto su di un albero.
Tralasciando questi eccessi, che d'altronde rientrano tra gli stilemi di Iñárritu, il film riesce a catturare l'attenzione del pubblico concludendo con un finale aperto che lascia spazio alle interpretazioni del singolo sul destino di Hugh.
                                                                                                                                      4 e mezzo 


martedì 2 febbraio 2016

The Martian: creare il grande dal piccolo

Bonsoir mes chèrs! Il film di oggi è completamente diverso da quello postato l'ultima volta, ma ha comunque qualcosa in comune: l'utilizzo delle proprie conoscenze per usufruire al meglio la natura. Dall'animazione mi sposto alla fantascienza e vi propongo un film uscito qualche mese fa che ha segnato il ritorno di Ridley Scott al suo cinema migliore. Eccovi dunque The Martian.
L'equipaggio di Ares 3 si trova in missione su Marte per una serie di studi, ma a causa di una forte tempesta uno dei componenti, Mark Watney, viene colpito da un detrito e separato dagli altri. Credendolo morto la squadra lascia il pianeta per fare ritorno sulla Terra; tuttavia Mark è ancora vivo e al suo risveglio scopre di essere rimasto solo, ferito e senza molti viveri oltre che mezzi per mettersi in contatto con la NASA. Realista circa le sue attuali condizioni e quelle di Marte stesso Mark sceglie di lottare e sopravvivere; fortuna vuole che sia un ingegnere meccanico e un botanico. Trova infatti un modo per coltivare l'arida terra del pianeta costruendo una serra e producendo letteralmente l'acqua per dare vita ad una coltivazione di patate all'interno del modulo in cui vive. Grazie a vecchi congegni della NASA, resti di precedenti missioni, Mark riesce anche a mettersi in contatto con la Terra che mette in atto un piano per salvarlo. E' una corsa contro il tempo che non manca di numerosi problemi a cui far fronte.
Per realizzare The Martian Ridley Scott si rifà al libro di Andy Weir L'uomo di Marte cercando di essere il più realistico possibile nella definizione di tutti e dettagli. Si affida inoltre ad una consulenza particolare della NASA che gli garantisce addirittura una équipe apposita per rispondere alle sue domande. Oltre a questo però il film, fantascienza a tutti gli effetti, si concentra in particolar modo sulla scienza mostrando come essa venga sfruttata dal protagonista per sopravvivere; dal nulla Mark riesce a ricreare una piantagione di patate (definendosi per questo il "miglior biologo del pianeta"!) che gli permetterà di prolungare il suo soggiorno su Marte in attesa di un qualche aiuto dalla NASA. Il pianeta rosso qui viene mostrato nella sua vera essenza: un luogo freddo e inospitale, desolato deserto di crateri solcato da forti venti che rende quasi del tutto impossibile viverci. Un posto insomma per nulla attraente in cui ricreare una "seconda vita" come da un po' di tempo a questa parte gli scienziati cercano di allettarci. La vera sfida che si combatte è tra l'uomo, solo, e un pianeta intero.
Scott gioca su quest'ultimo punto per ricreare dei rimandi al cinema del passato; le lunghe e solitarie escursioni di Matt Damon a bordo del rover ricordano molto le cavalcate nella Monument Valley dei cowboy di Ford, personalità solitarie chiamate a confrontarsi con l'immensità della natura.
Non c'è inoltre nessun intento di grandezza; tutto si concentra sulle possibilità e sull'ingegno di un singolo individuo che deve rimboccarsi le maniche e sporcarsi le mani perché nessuno lo salverà molto presto. Lo stesso spirito patriottico americano, che generalmente è simbolo di questo genere di film, viene ridimensionato; il regista mostra la NASA (uno dei maggiori emblemi dell'America) in forte difficoltà, indecisa sul come affrontare il "problema Mark" e costretta infine, causa insuccesso, a chiedere l'aiuto della Cina per mantenere intatta la sua facciata.
Mark-Matt diventa sì l'uomo dello spazio, ma rimane sempre un biologo prima di tutto, colui che ha creato qualcosa di piccolo ma necessario alla sua sopravvivenza da pressoché nulla, E' questo che vuole trasmettere Scott stesso: rimanere con i piedi ben piantati per terra volgendo lo sguardo all'universo.
                                                                                                                                      3 e mezzo