lunedì 22 dicembre 2014

Lo hobbit: la caduta di Jackson

Dopo 3 anni è giunto il tempo di tirare le fila di una trilogia molto discussa, in positivo o negativo che sia. Si tratta, forse l'avete già intuito, di quella creata da Peter Jackson che proprio non ne voleva sapere di abbandonare la tanto amata Terra di Mezzo... Lo Hobbit. Ho deciso di racchiudere in un unico post tutti e tre i film perché analizzarli uno alla volta sarebbe primo uno spreco di tempo e secondo non avrebbe senso dato che insieme dovrebbero costituire un unicum narrativo. 
Fatta questa premessa iniziamo con una considerazione molto semplice: il livello qualitativo di Jackson ha avuto un crollo epico (è davvero il caso di dirlo) in questi tre film. Probabilmente siamo stati usati troppo bene con la saga precedente, non a caso Il Signore degli Anelli è stato definito unanimemente dalla critica come un fantasy nel fantasy, ma ciò non toglie, anzi dovrebbe essere uno stimolo in più a fare meglio, che il regista ha avuto a sua disposizione i migliori effetti speciali per realizzare quest'ultima trasposizione. 
In secondo luogo la scelta di suddividere la trama in tre film (inizialmente erano solo due) per semplici ragioni commerciali non ha giovato al tutto perché Jackson ha dovuto inventare intere parti del racconto inserendo personaggi che o non c'entrano con le vicende, Legolas, o proprio non esistono, Tauriel, rendendo così pesante e macchinoso lo svolgersi dell'azione. Non c'era bisogno di vedere nascere un'impossibile storia d'amore nano/elfa che, tra l'altro, non va neanche a buon fine causa morte di uno dei due che così perde anche la sua ragion d'essere nel racconto perché tolto da ciò che in origine era il suo scopo. Non c'era bisogno di vedere il rivale lottare fino quasi a morire per salvare l'amata per poi sentirgli dire "non posso più stare qui" e quindi vederlo andare via scomparendo dalla storia di punto in bianco. Non c'era bisogno di vedere lo stesso dare il via ad un confronto/scontro generazionale padre/figlio che culmina nella classica presa di coscienza del primo che riacquista il suo ruolo di genitore e dà anzi un consiglio amorevole al figlio prima di partire suggerendogli chi andare a cercare (guarda caso quel Aragorn che diventerà suo compagno di viaggio nella più cruenta delle lotte della Terra di Mezzo)... Insomma se i film si fossero limitati a due probabilmente l'intera storia sarebbe stata più "realistica" e vicina al libro.
Ulteriore mancanza che a me ha dato particolarmente fastidio, e che contribuisce ad abbassare gli standard di qualità, sono alcune scene, in tutti e tre i film ma in particolare nell'ultimo, che vorrebbero apparire come comiche, create ad hoc per spezzare la tensione della battaglia o per smorzare i toni ma che tuttavia appaiono come forzate e senza senso; sono gag tra personaggi, scambi di battute o azioni fatte che degradano l'opera invece di darle quei piccoli respiri di cui tanto spesso ha bisogno.
Purtroppo devo anche aggiungere, ormai è una recensione cattiva quindi concedetemelo, che ho fatto davvero fatica ad arrivare alla fine del film nel senso che mi ha annoiato; mai una saga fantasy mi aveva fatto un effetto del genere. La battaglia, quella che dovrebbe essere il cuore pulsante dell'episodio è troppo lunga, senza grossi colpi di scena esclusa la conclusione che comunque è sopra le righe. Dopo un inizio tanto infuocato quanto breve in cui è la figura di Smaug a farla da padrone i toni si placano fino allo scontro finale in cui, diciamocelo pure, sono le aquile a salvare la pelle a tutti (se vi ricordate bene lo fanno anche ne Il Signore degli Anelli).
Devo trovare una nota positiva? Vi accontento: Smaug. Sì ha avuto una parte minima in quest'ultimo capitolo, ma d'effetto senza dubbio. Il che è merito degli effetti speciali della Weta Digital, stessa produzione che ha del resto animato tutta la saga precedente. 
Qui mi fermo lascio a voi giudicare il/i film; questo è quello che penso io e se dovessi dare un giudizio complessivo della trilogia sarebbe questo..
p.s. vi allego il trailer dell'ultimo capitolo!
                                                                                                                                                    3 

lunedì 15 dicembre 2014

François Truffaut: la retrospettiva alla Cinémathèque Française

Bon jour à tout le monde! Circa un mese fa sono andata a Paris espressamente per vedere la retrospettiva che la Cinémathèque ha dedicato a François Truffaut... perciò oggi ho deciso, invece di proporvi un film, di parlarvi della mostra.
La mostra, per tutti quelli che fossero interessati, rimane aperta fino al 1 febbraio 2015; fatta in occasione del 30 anniversario dalla morte del grande cineasta francese ripercorre le tappe salienti della sua carriera attraverso una serie di immagini di repertorio, documenti, tra cui svariate lettere ad amici e colleghi, articoli ecc.. e spezzoni di suoi film.
In sé l'esposizione non è particolarmente grande, ma ben strutturata e divisa in sezioni tematiche..
Si inizia dagli esordi e dagli spunti a cui Truffaut fa riferimento per dare vita alle prime opere; l'infanzia, ciò che lo circonda, i quartieri parigini e le prime apparizioni nei cineclub sono fondamentali per formare il giovane cineasta. Qui divora film su film e, da autodidatta, inizia a scrivere lunghe e dettagliate recensioni che lo portano a diventare parte attiva dei Cahiers du cinéma (la più importante rivista cinematografica francese e simbolo della Nouvelle Vague). Più di cento articoli vengono scritti tra il 1953 e il 1958 e, come se non bastasse, compie una lunga serie di interviste al maestro del brivido, Alfred Hitchcock, che danno origine a un libro a lui dedicato.
Accanto a tutti i numeri dei Cahiers su cui ha scritto l'esposizione offre la possibilità di vedere documenti e lettere personali scritte da Truffaut, fogli su cui prende appunti per future sceneggiature o note a margine di copioni che servono a migliorare la resa interpretativa dei suoi attori.
Una parte molto interessante è invece la sezione dedicata al rapporto del regista con gli attori con cui lavora, uno in particolare, il suo attore feticcio per eccellenza: Jean-Pierre Léaud.
Truffaut lo ingaggia appena bambino per recitare la parte protagonista del suo film forse più celebre: I 400 colpi. Léaud cresce fisicamente e attorialmente con François; quest'ultimo crea una vera e propria narrazione filmica attraverso gli anni per mostrare l'evoluzione e la crescita del personaggio interpretato da Jean-Pierre, Antoine Doinel. Diverse infatti sono le pellicole interpretate da Léaud nel corso degli anni, tutte o quasi mostrate all'interno delle sale espositive attraverso fotografie di scena, fotogrammi o intere sequenze. A volte si possono osservare anche scatti rubati, i migliori a mio avviso,tra un ciac e l'altro che sorprendono il regista e l'attore nell'atto di confrontarsi su di una battuta, un'espressione o un movimento.
Non va poi assolutamente dimenticato che l'intera mostra pone l'accento sui temi salienti della  sua filmografia, il suo modo di lavorare e la sua visione del mondo attraverso l'occhio meccanico della cinepresa. Su tutto prevale il sentimento sia quello più dolce e sentimentale della serie di Doinel che la passione amorosa e forte delle altre opere. Infine un accenno va fatto anche ad una pellicola come Effetto notte un film metacinematografico che mostra un film nel film dal punto di vista della realtà.
Non mancano infine le interviste e le reinterpretazioni che giovani registi emergenti danno del maestro francese fautore, tra l'altro, di un'intera generazione di cineasti che hanno contribuito a rafforzare le fila della Nouvelle Vague e farla conoscere in tutto il mondo.
In conclusione è una mostra che merita di essere vista sia che siate amanti di Truffaut sia che vogliate scoprirlo da un nuovo punto di vista, inedito..


martedì 4 novembre 2014

K-pax: chi è veramente l'alieno?

Bon soir! Lo so che ultimamente non ho scritto granché, ma però ho visto qualche film molto, molto interessante... oggi quindi ve ne propongo uno che, alla sua uscita, piacque ma solo agli spettatori più attenti e coinvolti nel tema trattato. Tuttavia è un'opera che non va assolutamente sottovalutata. Si tratta di K-pax da un altro mondo del regista Iain Softley. 
Prot, il protagonista, compare dal nulla nel bel mezzo della stazione ferroviaria di Manhattan, affermando di provenire da un altro pianeta, K-pax nella costellazione della Lira. Viene di conseguenza subito internato in una clinica psichiatrica e affidato alle cure del dottor Powell che si dimostra immediatamente interessato dalle affermazioni fatte dal paziente. Prot ha sembianze umane ma possiede conoscenze che vanno oltre a quelle fino ad ora acquisite dalla popolazione terrestre e lo dimostra rispondendo con estrema facilità a qualsiasi tipo di domanda postagli dal dottor Powell; anche quando si trova a doversi confrontare con i più illustri astronomi è sempre cento passi avanti. Non è però solo questo a contraddistinguerlo; ha anche un'influenza più che positiva sugli altri pazienti della clinica. Grazie ai suoi consigli tutti compiono notevoli miglioramenti. 
Le cose cambiano quando viene invitato da Powell a casa sua per il giorno dell'Indipendenza; tutto sembra andare per il meglio (Prot è anche un grande divoratore di frutta!) fino a che un rubinetto dell'acqua non viene aperto scatenando una violenta reazione in Prot. Il dottore sottopone il paziente a ipnosi per risalire alla causa della sua reazione e scopre una misteriosa vicenda nel suo passato legata ad un altro essere umano "Pete" che, guarda caso, è fisicamente identico a Prot. Convinto di aver scoperto la verità sull'extraterrestre il dottore mette alle strette Prot prima che ritorni sul suo pianeta, ma quest'ultimo lo stupirà ancora una volta...
Come dicevo prima il film non riscosse il successo dovuto alla sua uscita perché tratta temi non facilmente comprensibili da tutti; oscilla infatti costantemente tra il genere fantascientifico, richiami filosofici e teorie evoluzionistiche. Il regista, attraverso una delle conversazioni tra Prot e Powell, fa descrivere al protagonista le caratteristiche del suo pianeta ed i suoi abitanti; ne deriva che K-pax è un mondo in cui non esistono leggi perché tutti, dal bambino all'anziano, sono in grado di seguire la logica del giusto e del bene senza mai inciampare nel male e senza ricorrere a condizionamenti legali. Questo dice è stato imparato molti secoli fa. Di rimando però non esistono neanche convenzioni sociali: non ci si sposa, non si hanno figli propri e nessuno è più importante degli altri. Tutti si prendono cura di tutti senza fare distinzioni. 
Queste teorie filosofiche sull'essere pertanto richiedono un'analisi approfondita e non sempre possono essere condivisibili da tutti e ciò porta la pellicola a risultare di difficile comprensione per i più. Nonostante tutto essa è molto interessante per gli spunti che fornisce, non solo in campo filosofico, ma anche in quello astronomico (mi riferisco alla scena nell'osservatorio); sebbene le stelle attorno a cui orbita K-pax, e che gli astrofisici tentano da anni di trovarne l'esatta posizione, non esistano nella realtà sottolineano comunque una continua ricerca di tutto quello che l'universo contiene e di come ogni suo elemento sia in stretto contatto con il resto per dare vita ad un unico organico. 
Infine il film è interessante anche per un altro motivo che non va assolutamente sottovalutato: il lato "umano". Prot assume al suo arrivo sulla Terra sembianze umane pur mantenendo le sua facoltà ed è l'unico che riesce a trovare un modo valido per entrare in contatto con i pazienti della clinica psichiatrica in cui si trova arrivando persino a curarli o a dargli il giusto impulso che li porterà, col tempo, sulla via della completa guarigione. Incarna perciò quello che dovrebbe essere lo spirito del bene, scarsamente seguito dagli uomini ( non a caso dice che in tempi passati Cristo e Buddha hanno cercato di farlo, ma non sono stati compresi dal resto della popolazione). 
Probabilmente l'unica cosa che si dovrebbe insegnare a Prot è come mangiare una banana, per il resto bisogna imparare da lui. Che funga da esempio perché solo guardando il film ci si fermi a pensare con un po' più di attenzione a cosa conta veramente; bisogna trovare l'"uccello azzurro".         
                                                                                                                                    4 e mezzo

giovedì 16 ottobre 2014

L'angelo del male. Renoir e il successo

Bon jour! Oggi vi presento un film di uno dei maggiori registi francesi di tutti i tempi: Jean Renoir. Figlio del celebre pittore impressionista Jean crea film tra gli anni '20 e '60 diventando uno dei pilastri per tutti i cineasti a venire, soprannominato da Rivette "Le patron". Il film in questione, tratto dal romanzo di Zola La bestia umana, ottiene già dalla prima proiezione un enorme successo. Si tratta de L'angelo del male del 1938.
Il protagonista è Jacques Lantier ferroviere che, a causa di alcune tare familiari, soffre di pulsioni violente e aggressive; l'unico posto in cui si sente veramente bene e al sicuro è sulla sua locomotiva, la Lisa come la chiama, insieme al compagno Pecquereux. Un giorno però mentre aspetta una riparazione incontra una giovane donna, Séverine, moglie del vicecapo della stazione di Havre e se ne innamora. Pur avvisato della gelosia del marito Roubaud (che ha da poco assassinato il precedente amante) decide di intraprendere una relazione con lei. La loro non è una storia felice; inizialmente si vedono di nascosto nei posti più bui della stazione ferroviaria per non rivelare a nessuno la realtà delle cose, poi però iniziano a non curarsi più del segreto e si mostrano apertamente, indifferenti alle reazioni di Roubaud. Il loro amore non è vero amore, i dubbi iniziano a sorgere in entrambi, dubitano della lealtà dell'altro e si lasciano influenzare dai rispettivi passati; ben presto il rancore prende il sopravvento portando a richieste folli. Séverine infatti propone a Lantier di uccidere il marito, presenza quanto mai ingombrante e pericolosa; Lantier pur provandoci non riesce però a compiere ciò che gli è stato chiesto e così viene lasciato.
Tuttavia in uno degli ultimi incontri con la donna scatta in lui un vecchio istinto violento che lo porta compiere due gesti estremi: il primo verso di lei e il secondo verso se stesso.
Fin da subito va precisata una cosa: il vero protagonista del film non è Lantier, bensì il treno, la locomotiva sulla quale ogni giorno l'uomo fa il tragitto Parigi-Le Havre e sulla quale si sente al sicuro. Da cosa lo si capisce? Semplice, dal fatto che Renoir apre e chiude il film con lei, che le scene focali si svolgono su di essa o hanno lei come sfondo.  E' lei che indica la direzione stessa della storia.
Lantier diventa un tutt'uno con la macchina (le dà persino un nome!) perché attraverso di essa riesce a esprimere i suoi veri sentimenti, a sentirsi libero di quelle tare che condizionano la sua vita fino a condurlo alla morte. Questa è una peculiarità tipica del regista: esprimere i personaggi piuttosto che mostrarli; essi non sono semplici marionette davanti ad una cinepresa. Renoir fa si che riescano, attraverso condizioni avverse, a dare a noi spettatori uno spaccato della realtà per come la vivono loro, percepiamo le loro idee (condivisibili o meno), i loro dolori o le gioie. Lo schermo che separa finzione e realtà viene così a mancare, il cinema stesso si fa realtà.
Un'altra caratteristica tipica dello stile di Renoir che emerge dal film è l'uso delle inquadrature lunghe. Anche in questo caso lo si può notare in apertura quando siamo "costretti" a seguire visivamente il tragitto fatto quotidianamente dal macchinista. Tutta la ripresa viene fatta sulla locomotiva in modo da creare una soggettiva: vediamo ciò che il protagonista vede e lo vediamo con gli occhi dello treno. Alberi, case, interi villaggi sono solo sagome confuse a cui sfrecciamo accanto con in sottofondo lo sferragliare metallico dei binari. Questo ci consente non solo di entrare fin da subito in sintonia con il protagonista, ma ci dà anche il ritmo di quella che sarà l'evoluzione della storia.
A volte sottovalutato e incompreso Renoir crea opere che sono invece la prova di un grande talento artistico; saranno però solo i fautori della Nouvelle Vague negli anni '60 a capirne a fondo l'importanza. 
                                                                                                                                    3 e mezzo 

mercoledì 1 ottobre 2014

In the mood for love: l'amore impossibile

Bon jour à tout le monde! Dopo una serie di film a tema musicale oggi vi vorrei parlare di qualcosa di più romantico, anche se triste... Tuttavia il film merita davvero di essere visto perciò ve lo propongo nella speranza che vi possa piacere. Si tratta di In the mood for love di Wong Kar-Wai.
Nella Hong Kong degli anni '60 si intrecciano le vite di un uomo e una donna; Chow Mowan e Su Lizhen si ritrovano ad essere vicini di casa per puro caso, sono entrambi sposati ma i rispettivi coniugi sono spesso assenti sia per lavoro sia sentimentalmente. Ben presto si scopre però che questi ultimi sono in realtà amanti da molto tempo. Pur ammettendo questo stato delle cose tra di loro i due protagonisti continuano a mantenere un rapporto di cordiale vicinanza, ma i frequenti incontri sotto casa, gli attimi rubati tra un saluto e l'altro e i lunghi periodi di solitudine fanno sì che alla fine si innamorino. Iniziano così a vedersi promettendosi che non faranno come i loro consorti... però non ce la fanno e si vedono di nascosto dagli altri, in locali isolati dove nessuno li conosce e qui parlano per ore arrivando addirittura a inscenare possibili discorsi con il rispettivo marito/moglie. 
Tutto questo però non fa altro che allontanarli sempre di più, creando vuoti che di incontro in incontro si fanno sempre più grandi; entrambi infatti sanno che il loro amore non potrà mai avere un esito positivo, non potrà mai rivelarsi apertamente al mondo intero.
L'opera di Kar-Wai, pur nell'estrema linearità della trama, mostra un crescendo per quando riguarda i sentimenti provati dai due protagonisti; essi aumentano piano piano, con delicatezza come a non voler turbare l'armonia della casa; la loro intensità si manifesta soprattutto interiormente creando un vero e proprio sconvolgimento emotivo che lascia entrambi i personaggi "spaesati". Non sanno come comportarsi, non vogliono ripercorrere la stessa strada dei loro compagni, soprattutto non vogliono essere giudicati dalla gente. Sono contornati da persone ancora ancorati ad una mentalità arcaica che si trova in contrapposizione con il clima che sta nascendo ad Hong Kong. Si sentono catturati in un vortice che non possono fermare e da cui non possono uscire, ma che tuttavia non porta a qualcosa di positivo. 
Non a caso il regista sceglie come sottofondo alla storia musiche (di Michael Galasso) malinconiche, tristi che si ripetono frequentemente nel corso della narrazione e che spesso prendono il sopravvento sulla parola; quest'ultima non è necessaria, non serve parlare per forza, i silenzi dicono molto di più. Anche la scelta della location è ponderata accuratamente; negli anni '60 infatti Hong Kong funge da rifugio/crocevia per tutti coloro che vogliono allontanarsi dal comunismo di Mao, evadere da una società conservativa (Shanghai) e guardare al futuro. Questo essere luogo di passaggio si riflette negli stessi protagonisti che non si sentono a proprio agio nella situazione in cui, loro malgrado, sono e lo si nota man mano che la storia va avanti; nel finale, a distanza di anni quando entrambi si sono allontanati dalla città e hanno fatto esperienze diverse, ritornano in quello che è stato il luogo del loro incontro e ripercorrono con gli occhi della memoria gli attimi passati. Hong Kong rimarrà sempre per loro il luogo di un amore malinconico.
Wong Kar-Wai racconta una storia d'amore malinconica, triste in cui però tanti si possono rispecchiare; chi non ha mai provato sentimenti che, per un motivo o per l'altro, erano destinati a non avere un lieto fine? 
                                                                                                                                     4 

sabato 27 settembre 2014

Beethoven a confronto

Bon jour!! Vi ricordate la recensione che ho scritto tempo fa su Beethoven? Bene, siccome la mia amica Erica, che cura un blog di musica, sta trattando questo compositore mi ha chiesto di vedere oltre al precedente film, Amata immortale, altri due che oggi qui vi riassumo per mostrarvi due diversi punti di vista sulla vita del grande maestro. Sono due opere completamente opposte tra loro che danno una particolare interpretazione della musica di Beethoven.
Ecco la prima: Lezione ventuno di Alessandro Baricco. Il film parla del perché il professor Kilroy abbia annoverato la Nona sinfonia di Beethoven tra i 141 capolavori sopravvalutati dalla critica; attraverso il racconto della sua studente preferita spiega, nota dopo nota, come l'intera composizione non sia altro che il risultato di un musicista arrivato ormai al termine della sua carriera, troppo pieno di sé e troppo sordo per accorgersi che quello che scrive non sarà mai apprezzato. Contemporaneamente si apre nel film un parallelismo con il 1824, anno in cui fu composto l'Inno alla Gioia, in cui compaiono una serie di personaggi che danno la loro personale interpretazione, come in una vera e propria intervista, della partitura dopo che fu suonata pubblicamente per la prima volta. Nell'inverno dello stesso anno inoltre si svolge la storia di un violinista, scoperto morto assiderato con ancora il suo violino in mano, sulla riva di un lago poco fuori Vienna, che si ritrova in uno strano villaggio con strani personaggi, ognuno dei quali ha la sua visione della musica di Beethoven. 
Di tutt'altro genere è invece l'altro film Io e Beethoven diretto da Agnieszka Holland. In questo caso fantasia e realtà si mescolano per dare un ritratto un po' più smussato del grande compositore. Beethoven sta per finire di scrivere la Nona sinfonia, ma ha bisogno di qualcuno che copi i suoi appunti in partiture ordinate; il suo segretario gli manda una giovane copista, Anna Holtz, che non solo finisce di trascrivere la sua musica ma lo stimola, lo capisce meglio di chiunque altro e ne placa gli attacchi d'ira improvvisa. Sarà proprio lei che nel giorno della prima esecuzione pubblica lo guiderà nella direzione dell'orchestra evitando in questo modo qualsiasi tipo di stonatura. Sarà sempre lei che lo sosterrà dopo il fallimento della Grande fuga, opera incompresa per gli ascoltatori dell'epoca e sarà lei l'ultima persona che Beethoven vede prima di morire.
Due punti di vista opposti quelli presentati in questi due film; nel primo caso si vuole mostrare come la Nona sinfonia non sia poi quel gran capolavoro che tutti applaudono, mentre nel secondo si elogia il lavoro fatto dal maestro, lo si porta ai massimi livelli contrapponendolo all'opera successiva che al contrario non fu compresa se non molto dopo la sua morte. Chi ha ragione? 
A mio avviso nessuno dei due... Il film di Baricco (che è anche scrittore, critico musicale, pianista..) non va guardato, va sentito per poterlo capire; attraverso la Nona sinfonia mostra gli istanti di vita e i sentimenti provati da Beethoven mentre la componeva. Non è un inno alla gioia, ma una dichiarazione di sofferenza per la sua condizione di sordità, una dimostrazione di odio per come gli sia stata sottratta la cosa più preziosa che ha, l'udito. E' in poche parole una guerra interiore che il musicista combatte nota dopo nota. Tutto il resto, i personaggi e gli scenari onirici, sono il frutto della fantasia del regista che cerca di trasmettere in immagini quello che lui stesso associa a questa musica per far comprendere a noi spettatori il suo punto di vista. Spesso però non fa altro che disorientarci e confonderci, come disorientato è il violinista che verrà in seguito trovato assiderato.
Al contrario il film della Holland mescola elementi e personaggi di pura invenzione per mostrare un Beethoven ancora all'apice della sua carriera; qui lo si descrive non ancora sordo del tutto e gli si affianca la figura di Anna (nella realtà mai esistita) per addolcirne i tratti. Questo modificare la realtà tuttavia tende a sminuire lo stesso compositore facendolo apparire a volte quasi "debole", malleabile; nella realtà invece era una persona aspra, dura che non avrebbe mai permesso a qualcuno di cambiare anche leggermente una delle sue partiture.
Per comprendere appieno Beethoven però il modo migliore (ve lo dico da pianista) è quello di ascoltarne le opere, non solo la Nona sinfonia, ma anche le altre, quelle composte prima e quelle dopo per coglierne i cambiamenti, le alterazioni che riflettono il suo stato d'animo. Dopo potrete voi decidere quale tra questi film, non dimenticate Amata immortale, vi piace di più!
                                                                                                 Lezione ventuno  3                                                                                                                          Io e Beethoven   2 e mezzo



venerdì 19 settembre 2014

Il gabinetto del dottor Caligari = espressionismo puro

Aujourd'hui mes chérs ho scelto un film che cercavo di guardare da un sacco di tempo, ma che non trovavo mai. E' un'opera fondamentale per il periodo in cui è stata realizzata, tanto che ne rappresenta l'apice stesso. Suo regista è Robert Wiene mentre il titolo è Il gabinetto del dottor Caligari del 1920.
Il protagonista, Franz, racconta ad un vecchio seduto vicino a lui una storia particolare e misteriosa avvenuta nel suo passato in un piccolo paesino della Germania... Per la fiera locale arriva in paese un misterioso individuo, tale Caligari, per presentare la sua attrazione: Cesare, uomo sonnambulo fin dalla tenera età capace anche di prevedere il futuro che, generalmente, risulta essere macabro per chi lo chiede. Infatti dall'arrivo dei due personaggi ogni sera avvengono sospette morti, legate appunto alle previsioni fatte da Cesare; tra queste c'è anche quella dell'amico di Franz che condivide con lui l'amore per la giovane Jane. La stessa ragazza diventa la prossima vittima dei due uomini, ma il sonnambulo, rimanendo incantato dalla bellezza della giovane, non riesce a portare a termine l'ordine ricevuto e scappa nella foresta. Jane racconta cos'è avvenuto alla polizia che si precipita ad arrestare il dottor Caligari rifugiatosi nel frattempo in un manicomio di cui è anche lo stesso direttore. Qui viene ritrovato il suo diario in cui confessa il desiderio di scoprire e usare tutte le tecniche relative al sonnambulismo; viene perciò internato.
Il flashback di Franz termina, ma non è detto che questo sia ciò che davvero è avvenuto perché Franz e il suo interlocutore sono seduti sulla panchina del...
Il film di Wiene è l'apoteosi del movimento espressionista tedesco, movimento già nel pieno del suo successo quando il film uscì, ne incarna appieno tutte le caratteristiche tipiche e funge quasi da pioniere per le future opere cinematografiche. Quello che emerge infatti è l'espressività dei vari personaggi, tutti pesantemente truccati (generalmente con trucco molto scuro) per accentuare maggiormente le connotazioni dei diversi stati d'animo. Inoltre anche la trama gioca un ruolo chiave: tutta la storia si basa su di una serie di reciproche accuse tra i vari soggetti tanto che lo spettatore non sa più a chi deve credere e deve aspettare la fine per scoprire la verità; ogni volta che sembra essere arrivato a un epilogo ecco che tutto si capovolge e l'accusatore diventa accusato. 
Tuttavia quello che colpisce al di sopra di qualsiasi altra cosa fin dall'inizio sono le inquadrature e le scenografie utilizzate dal regista. Quest'ultime sono un capolavoro di allucinante follia, non hanno una logica (pur avendola!) e sono piene di spigoli appuntiti, strade arzigogolate che non portano in nessun luogo e ombre minacciose ad ogni curva. Non esiste in poche parole una geometria: il sotto può diventare sopra come la destra diventare sinistra; solamente i personaggi sanno come muoversi al loro interno perché pervasi anche loro da pura pazzia. Questo mondo distorto ricorda molto le opere degli artisti espressionisti più in voga in quel periodo: Kirchner, Macke, Klee... e anche qualche futurista come Prampolini. 
Le inquadrature privilegiate sono invece in genere fisse, con un montaggio quasi inesistente per creare un effetto di "piattezza" dell'azione, mentre il restringimento del focale dell'obiettivo dà un senso di soffocamento come se l'azione si chiudesse pian piano su se stessa, lasciando al di fuori lo spettatore che non può essere partecipe della vicenda.
Che il film sia un capolavoro creativo non c'è dubbio e lo si capisce subito, che funga poi da stimolo per le pellicole a venire lo si nota solo in seguito quando compaiono i lavori di Lang, Metropolis,  Murnau, Nosferatu il vampiro e così via. Forse mai come prima due arti (cinema e arte) si sono così ben amalgamate per rappresentare una delle maggiori avanguardie del primo Novecento portandone le peculiarità all'ennesima potenza.
                                                                                                                                                    5 

venerdì 12 settembre 2014

Il guerriero di Kitano: Zatoichi

Bon jour! Oggi è la giornata ideale per trasferirsi un po' in oriente, cinematograficamente parlando s'intende... Di questo regista ho già analizzato un film tempo fa, ma mi sembra giusto richiamarlo in causa nuovamente perché la pellicola di oggi è considerata il suo maggior successo, presentata in concorso nel 2003 alla Mostra del Cinema di Venezia. Il regista è Takeshi Kitano mentre l'opera è Zatoichi.
Ichi è un massaggiatore cieco dai capelli biondi ossigenati (siamo nel '800!) che si sposta di paese in paese cercando qualsiasi tipo di impiego che lo renda utile per gli altri. Finisce così per stabilirsi per qualche tempo in una piccola cittadina ospitato da una donna di mezz'età sola alla quale, in cambio di un pasto caldo e un letto, offre manodopera e massaggi ristoratori. Qui conosce anche il di lei nipote, ragazzo un po' tonto e col vizio del gioco d'azzardo. 
La pace però non fa parte delle caratteristiche del paese; le famiglie più potenti sono in lotta tra loro per garantirsi il controllo sul resto degli abitanti ed i conseguenti dazi che ne possono ricavare, soprattutto dalle case da gioco molto amate dal nipote di O-Ume. 
Sul percorso di Ichi tuttavia si intrecciano quelli di altri personaggi come Hattori, samurai che vuole riconquistare il proprio rango che si mette al servizio del signore più potente oppure come O-Sei e O-Kinu, due geishe dal passato misterioso che cercano vendetta. Il massaggiatore si trova quindi, in un modo o nell'altro, a relazionarsi con loro per far sì che ogni cosa torni al proprio posto, per ristabilirne il corretto ordine.
Il film di Kitano, lo si nota fin dalla scena iniziale, vuole essere una sorta di omaggio a un grande maestro del cinema giapponese: Akira Kurosawa; molte infatti sono le scene di combattimento di gruppo nelle quali uno, l'eroe (Ichi), si trova a dover affrontare uno stuolo di nemici ben armati avendo a sua disposizione come unica arma la propria spada. Molto spesso inoltre queste sequenze di combattimento avvengono sotto la pioggia o al chiaro di luna e tutte hanno poi lo stesso esito favorevole per rimarcare come le virtù e le caratteristiche impersonate dal personaggio principale siano quelle da seguire per condurre una corretta vita. Ad esse legate ci sono poi gli effetti speciali che invece sembrano ricordare Tarantino per lo stile splatter; ad ogni fendente di spada schizzi di sangue si disperdono nell'aria in tutte le direzioni come a voler creare una coreografia parallela ai passi delle arti marziali impiegate. Tale uso viene fatto da Kitano anche in altri film, in particolare in Brother.
Altra caratteristica ricorrente (fattami accuratamente notare) è il gioco; in questo caso è ben manifestato attraverso la casa da gioco. Ichi ci va non perché ossessionato dallo scommettere d'azzardo in sé, ma per migliorare le proprie percezioni uditive; al contrario il nipote di O-Ume non può farne a meno e trascorre intere giornate a puntare e perdere. Sembra questa una parentesi all'interno della narrazione, ma svolge invece un ruolo fondamentale per riunire tutti i vari caratteri presenti nel film; funge quindi da catalizzatore della storia stessa e dell'esito poi conclusivo. 
Il finale è rivelatore del vero essere del protagonista: oltre che massaggiatore e esperto maestro guerriero lo scopriamo anche perfettamente sano, non cieco quindi come vuole apparire; la salute fisica però, conclude Kitano, non è così indispensabile come sembra, è meglio affidarsi sempre alle proprie percezioni sensoriali. A voi decidere se seguire il suo consiglio oppure no!
                                                                                                                                      3 e mezzo 




mercoledì 10 settembre 2014

Persona: dualità/unicità in Bergman

Oggi carissimi voglio fare un passo indietro nella storia del cinema per farvi scoprire, se non lo avete già visto, un film che a mio parere per quando possa apparire "incomprensibile" è bellissimo. Si tratta forse di una delle massime opere, probabilmente quella più compiuta, in cui risiede ovvero tutta la poetica di uno dei più grandi registi europei dagli anni '40 ai '70: Ingmar Bergman. Il film che ho scelto è invece Persona.
La famosa attrice Elisabeth Vogler durante una performance teatrale ha un crollo e si blocca incapace di andare avanti o di muoversi; riesce solo a ridere senza un apparente motivo. In seguito però si chiude in un mutismo assoluto e viene perciò ricoverata in un ospedale psichiatrico affidata alle cure della giovane infermiera Alma. Dato che ogni tentativo sembra inutile la dottoressa che segue il caso propone ad Alma di trasferirsi con la paziente per un certo periodo nella sua casa in riva al mare, sperando così in un qualche miglioramento. Qui in un isolamento pressoché totale inizia una particolare relazione tra le due donne; due caratteri opposti che convivono fianco a fianco. Elisabeth continua a non parlare ma ascolta pazientemente Alma raccontarle della sua vita, dei suoi amori, di come abbia scelto la carriera infermieristica. Si trasforma nella perfetta confidente che sa come farsi capire nonostante si rifiuti di emettere qualsiasi suono. Al contempo Alma sembra aver trovato nell'attrice la sorella che non ha mai avuto, che la capisce senza giudicarla e la consola quando è triste.
Questo rapporto però non è destinato a durare; troppo viene detto e rivelato, anche ad altri e porta le due donne ad allontanarsi in modo secco e senza preavviso, ognuna accusandosi silenziosamente o meno degli errori fatti in passato.
Con Persona Bergman crea un piccolo capolavoro di psicologia sentimentale; mette a confronto due diverse personalità che però hanno molto in comune tanto da arrivare quasi a sovrapporsi una sull'altra, a diventare un'unica entità. Da un lato infatti c'è Elisabeth il carattere più forte, quello dominante incapace però di amare davvero o di provare un qualche tipo di sentimento profondo; dall'altro lato c'è invece Alma giovane e inesperta del mondo che si confida senza pudore sperando in un conforto in cambio di un amore puro. Il regista ce le mostra prima separatamente per marcarne le differenze, poi insieme per mostrare come in fin dei conti esse non sono poi così diverse tra loro; interessanti sono due sequenze una a metà film circa in cui Bergman le accosta fin quasi, con un gioco di dissolvenze, a fonderle in una sola persona (che sia Alma o Elisabeth non si sa) e una alla fine in conclusione dove, riprendendo una scena iniziale, il volto di Elisabeth si trasforma gradualmente in quello di Alma. Anche il rapporto che si instaura tra le due è simbolico, si potrebbe quasi parlare di un amore omosessuale ma non corrisposto tra il carattere debole (che è quello che ama) e il carattere forte (che al contrario non ci riesce); questo tipo di amore viene tuttavia tradito attraverso una confessione al mondo esterno. 
Di tutt'altro aspetto ma pur sempre particolare è invece l'incipit del film: Bergman sceglie di accostare tra loro immagini che non hanno niente in comune essendo per soggetto e tema tutte diverse. Perché lo fa? Probabilmente per mostrare le capacità oniriche del cervello umano, quello che esso è in grado di affiancare in un unico sogno e condizionarne poi la psiche; alla fine della carrellata si nota infatti un bambino che si sveglia e si mette a leggere... forse è proprio il suo sogno.
In tutti i suoi film Bergman gioca con l'onirico e ciò che esso comporta poi sul piano reale; qui lo fa più che in qualsiasi altra sua opera tanto che spesso lo spettatore si confonde, non capisce più quale sia la realtà e quale il sogno. Come con le due protagoniste: alla fine non sappiamo quale delle due "sopravviva" all'altra. 
                                                                                                                                      4 e mezzo

martedì 9 settembre 2014

Beethoven e la sua amata immortale

Bon jour à tout le monde! Finalmente dopo quasi un mese torno a scrivere qui sul blog e, vi prometto, adesso lo farò molto più assiduamente!
Per riprendere al meglio ho pensato di parlarvi di un film che si ispira ad una storia vera (e che storia!) fattomi scoprire da una cara amica interessata di musica. Il personaggio di cui parla l'opera è niente meno che Ludwig van Beethoven mentre il film è Amata immortale diretto da Bernard Rose, lo stesso regista di Il violinista del diavolo di cui ho scritto un paio di post fa.
Beethoven è appena morto nella sua casa di Vienna il 26 marzo 1827 e già i fratelli se ne contendono l'eredità quando, rovistando nella confusione di carte e spartiti, il suo amministratore e amico Schindler scopre una lettera in cui il maestro ha scritto il suo ultimo testamento: "la mia musica e tutte le mie proprietà andranno ad un solo erede... la mia amata immortale". Non c'è però il nome della donna e così, da questo momento, inizia un viaggio a ritroso nel tempo per cercare di scoprire chi è stato il vero grande amore del musicista. Nel suo percorso Schindler si confronta con tre diverse donne, ognuna a suo modo legata sentimentalmente a Beethoven. 
La prima è la contessa Guicciardi che lo incontra ancora adolescente quando il padre lo assume perché le faccia da insegnante di pianoforte; lei lo conosce quando la sordità inizia vincerlo ma nonostante tutto se ne innamora ed è disposta a sposarlo. Sarà il padre ad impedirne il matrimonio per questioni sociali e politiche. Giulia non può quindi essere l'amata immortale della lettera.
La seconda donna della vita del compositore è Anna Marie Erdoby, nobile ungherese e madre di tre figli, trascorre molto tempo con lui e instaura un legame intenso e duraturo fino alla morte del suo primogenito avvenuta in conseguenza di un attacco militare da parte delle truppe di Napoleone che stanno invadendo l'Europa. La separazione tra i due è dolorosa ma in fin dei conti inevitabile. 
Schindler è sempre più spiazzato dalla situazione ma, facendo alcuni riscontri, arriva a Karlsbaad, luogo in cui Beethoven trascorreva del tempo e dove, dopo aver guardato i registri delle presenze, nota la firma di una terza donna, una donna che scoprirà essere l'amata immortale, il tutto, l'alter ego del musicista. Ma quest'ultima donna non sa di essere il grande amore di Ludwig fino a quando Schindler stesso le mostra la lettera scrittale molto anni addietro e, per una serie di sfortunate coincidenze, mai letta.
Rose compie un ottimo lavoro di ricostruzione biografica decidendo solo di svelare a noi spettatori chi fosse questa "amata immortale" che riuscì a sconvolgere profondamente la vita del compositore; nella realtà invece essa rimane tutt'ora ignota. Il regista sceglie inoltre di partire dalla fine, ovvero dalla morte di Beethoven e compiere un percorso a ritroso nella sua vita dal momento in cui la sordità lo prende impedendogli di continuare a godere del successo che gli spetta. E' da questo momento che il musicista inizia ad isolarsi dal mondo, a diventare taciturno, scontroso e a volte violento; la gente, non comprendendo quello che gli sta accadendo, lo giudica negativamente, lo critica e a volte lo deride (soprattutto nei concerti che tiene). Ciò viene mostrato molto bene grazie a interessanti sequenze in cui, per far capire la condizione del musicista, i suoni arrivano a noi che guardiamo il film in maniera molto ovattata, appena udibili; è questa una sensazione molto debilitante, ma che ci dà la percezione del mondo in cui suoi malgrado Beethoven si ritrova a vivere. Da notare la scena in cui, a casa della contessa Guicciardi, mentre suona appoggia l'orecchio al pianoforte per sentire le vibrazioni prodotte dai tasti. Anche se ormai i suoni non sono più udibili egli riesce comunque a percepirli guardando uno spartito o i tasti dello strumento. 
Ecco allora che le figure delle tre donne acquistano un ruolo importante per l'evolversi della sua vita e della sua carriera; ognuna a suo modo lo ama e lo sostiene, portandolo a fare scelte che magari altrimenti non avrebbe mai fatto, giuste o sbagliate che siano. Esse sono tre caratteri completamente differenti tra loro, messi ben in luce dal momento in cui si trovarono a confronto con Ludwig; solo una però riusce a conquistarlo veramente e per tutta la vita.
Il fatto che Rose scelga di mostrarci chi è deviando dalla storia vera non va letto come uno svantaggio per il film, non sminuisce il genere biopic; dà semplicemente la conclusione che tutti bene o male vogliamo: scoprire chi è la donna. Il mistero rimane in ogni caso sempre presente.
Forse però guardando il film ci viene voglia di andare a indagare un po' di più la vita di uno dei maggiori compositori e musicisti del XIX secolo... per chi volesse approfondire vi lascio il link al blog della mia amica Erica che vi dà qualche spunto in più musicale:
http://piccoliviaggimusicali.blogspot.it/2014/10/inno-alla-gioia-5-e-moonlight-1-cult.html?spref=fb
                                                                                                                                                    4

domenica 17 agosto 2014

Shutter Island: l'isola della mente

Bon jour! E' da un sacco di tempo che non scrivo (ultimamente non ho molto tempo per vedere film), ma finalmente sono riuscita a vedere una pellicola che avevo voglia di guardare da molto tempo. L'opera in questione è stata realizzata da uno dei maggiori registi italo-americani contemporanei: Martin Scorsese mentre il film è Shutter Island.
L'agente federale Edward Daniels viene mandato, su sua richiesta, insieme ad un collega sull'isola di Shutter Island dove ha sede un istituto di cura per criminali malati di mente per risolvere un anomalo caso di sparizione. Qui risiedono i pazienti più pericolosi e nessuno può scappare: l'unica via d'uscita è il molo sorvegliato ventiquattrore su ventiquattro da guardie armate; eppure una di loro sembra esserci riuscita. Però questo non è il solo motivo perché Teddy è venuto; sa che detenuto qui c'è anche il piromane responsabile dell'incendio che uccise sua moglie e i suoi figli. E' determinato a parlargli per risolvere i conti aperti col passato e smettere finalmente di avere incubi. Tuttavia sia i medici che i poliziotti che lavorano nell'istituto sembrano cercare in tutti i modi di ostacolare le indagini; sembra che vogliano nascondere la verità sull'evasa, ma anche sugli esperimenti che stanno compiendo sui pazienti. Il caso si infittisce e Teddy inizia a sospettare di tutti, anche del suo collega che scompare misteriosamente... ucciso? scappato?
L'agente sembra essere vicino alla soluzione quando trova, in una grotta celata tra le scogliere dell'isola, la presunta paziente scomparsa che in realtà si rivela essere una stimata psichiatra costretta a nascondersi perché non condivide più i metodi sperimentali adottati dai suoi colleghi che prevedono l'uso della lobotomia per calmare i detenuti. Queste barbare operazioni, rivela, si svolgono all'intero del faro; Edward è deciso ad andarci perché crede che il suo compagno sia stato portato lì, ma quando arriva scopre che la realtà è ben diversa...
Il regista mette a dura prova lo spettatore, gioca con la sua mente facendogli credere, come ha fatto con lo stesso protagonista, ciò che vuole ma che non è necessariamente la verità o la realtà. Noi diventiamo Teddy, riviviamo con lui i suoi incubi, il massacro avvenuto nel campo di concentramento di Dachau di cui è stato testimone e le continue visioni che ha della moglie morta che lo esorta a scappare dall'isola. Lui si sente colpevole per non essere riuscito a salvare tutti quegli ebrei, in particolare una bambina che in ogni sogno lo accusa di non essere arrivato in tempo e che spesso si affianca alla figura della moglie causandogli dolorose emicranie. Tutto ciò lo spinge a cercare ancora di più la verità nascosta tra le spesse mura dei padiglioni del centro, a cercare il piromane che ha distrutto la sua vita per perdonarlo o per ucciderlo; non c'è via di mezzo. Nei giorni che passa sull'isola però si scontra con la sua figura antitetica: il dottor Cawley. Quanto il primo si lascia guidare da emozioni e sentimenti tanto il secondo è razionale e metodico, pronto a sperimentare nuovi metodi in nome della scienza. 
Scorsese si serve di queste due figure per costruire la storia del film; le mette ai lati della stessa scacchiera e osserva cosa succede, chi farà scacco matto a chi. Le mosse fatte da entrambi si basano su un profondo gioco psicologico costituito da continui tranelli che alterano il corso dei successivi eventi. Teddy, e di conseguenza noi, crede di avere la vittoria in pugno, pensa di essere vicino a scoprire la verità, ma è davvero questa la verità? Alla fine lui capisce quale essa sia, anche quando appare chiaro l'esito, ma sintomatica è l'ultima frase che pronuncia prima di avviarsi incontro al suo destino: "Cosa sarebbe peggio? Vivere da mostro o morire da uomo per bene?" Con questa conclusione dimostra allo psichiatra che sa ma che preferisce nonostante tutto l'altra opzione.
La frase non va sottovalutata e il regista ha deciso di concludere il film così per farci riflettere, lasciare aperta una finestra di discussione sui meccanismi messi in moto dalla mente umana per difendersi da un dolore a cui non riesce a far fronte altrimenti. E', sembra suggerire, un modo per non giudicare, ma provare a capire e comprendere.
Non tutti ne sono capaci, ma magari dopo aver visto questo film ci si sforzerà un po' di più.
                                                                                                                                        4 e mezzo

martedì 29 luglio 2014

Locke. Il viaggio di una vita

Bon soir! Spesso i film migliori sono quelli che passano in sordina, che non vengono ammessi ai grandi festival o a cui viene riservata un'attenzione secondaria. A volte addirittura non escono in sala (molto frequentemente è proprio quello che accade in Italia). La pellicola di cui vi parlerò in questo post è stata presentata, fuori concorso, alla 70° mostra del cinema di Venezia ed è un vero gioiellino: si tratta di Locke diretto da Steven Knight.
L'intera storia si svolge in una notte, in un'auto guidata da Ivan Locke. Ivan ha deciso di rivoluzionare completamente la sua vita; al volante della sua vettura si sta dirigendo in direzione sconosciuta dove la persona con cui ha trascorso una sola notte insieme nove mesi prima sta per partorire. Lei, naturalmente, non è sua moglie che, al contrario, lo sta aspettando a casa con i figli per guardare la partita di calcio. Non è però tutto... Locke è anche il capocantiere del più importante progetto non militare di costruzione edile in quanto a dimensioni e, proprio la sera prima della grande colata di cemento in cui tutto deve essere preciso al dettaglio, decide di lasciare il cantiere in mano al suo assistente per recarsi a Londra. 
Inizia così una lunga serie di telefonate in viva voce per risolvere qualsiasi problema relativo alla "grande colata" con assistenti, dipendenti e capo perché, nonostante sappia di aver perso il posto con il suo comportamento, quello rimane sempre il suo palazzo e tutto deve andare come previsto. In contemporanea però chiama anche Bethan, la donna che gli sta dando un figlio, e la Katrina, la moglie per raccontarle tutto. Non contento intraprende pure un monologo con un passeggero invisibile a cui addossa tutte le colpe e da cui vuole con tutto se stesso dissociarsi. 
Knight non è il primo regista che si cimenta con un'opera la cui trama si svolge tutta in un'unico posto; prima di lui ci sono stati illustri esempi quali Lumet con La parola ai giurati e Polanski con il recente Carnage. Qui però si va oltre: l'azione si compie interamente all'interno di una macchina in un'ora e mezza. Inoltre il regista, quasi non fosse soddisfatto di ciò, si serve di un solo protagonista lasciando che tutti gli altri siano pure voci senza volto né corpo; spetta quindi a Tom Hardy (interprete di Locke) il farsi carico della rappresentazione nella sua interezza.
Fin da quando sale in auto noi spettatori diventiamo partecipi del suo tormento, siamo il passeggero seduto sul sedile posteriore che silenzioso ascolta tutte le telefonate e i monologhi che fa nel tentativo di compiere la scelta giusta per sé e per gli altri. Ivan è una brava persona, ottimo capocantiere, scrupoloso in ogni minimo dettaglio, buon padre e, fino a nove mesi fa, marito irreprensibile. Poi, dopo una notte di solitudine, tutto cambia; una donna di cui non sa niente se non che è sola rimane incinta e ora sta per dargli un figlio. Lui sceglie di fare la cosa che ritiene più giusta: prendersi cura di quel bambino; per farlo però è costretto a sconvolgere totalmente la sua vita e quella delle persone a lui legate. Perde così in un colpo solo tutto, ma è deciso a farlo per non ripetere gli errori che dal passato tornano a galla.
In questa ora e mezza di puro dialogo il mondo e il tempo spariscono, la sala diventa l'auto di Locke e noi ci immedesimiamo in lui, ne comprendiamo i suoi tormenti e li facciamo nostri: questo è lo scopo del film, lo scopo di Knight. A fine visione non si può che uscirne spossati, travolti dalle emozioni e dalla potenza espressiva di un unico interprete che è stato in grado di catalizzare la concentrazione dall'inizio alla fine sul suo volto. A voler essere onesti chi non si è identificato in lui, nei suoi discorsi o quanto meno nel modo di usare un viaggio in auto (in notturna per di più) per risolvere problemi quotidiani? 
Vi do soltanto un consiglio: non guardate questo film se siete stanchi perché per apprezzarlo appieno è richiesta una buona dose di attenzione. Per il resto merita di essere visto
                                                                                                                                       4 e mezzo 

mercoledì 23 luglio 2014

Il violinista del diavolo. Paganini e Garret: due artisti stessa musica

Oggi carissimi vi voglio parlare di di un film a tema musicale, ma che non è un musical (così chi non ama il genere può rilassarsi!); è un'opera che racconta la storia di uno dei più importanti musicisti/compositori della musica romantica. Si tratta ovvero di Niccolò Paganini e l'opera di Bernard Rose è Il violinista del diavolo.
Paganini fin da bambino dimostra un talento e una predisposizione naturale per la musica, in particolare per il violino, strumento che adotta per tutta la sua carriera; tuttavia non viene compreso, dal padre in primis, e poi dal pubblico che snobba la sua arte perché non del tutto convenzionale con i canoni del suo tempo. Non riesce quindi a diventare famoso e riscuotere quel successo che gli spetta di diritto. Questo fino a quando compare nella sua vita un misterioso personaggio, tale Urbani, che gli propone un accordo: successo, fama e potere in vita in cambio della sua anima quando morirà. Paganini accetta senza indugi e da questo momento in poi ogni palcoscenico d'Europa è suo e ogni volta il successo è maggiore del precedente. Naturalmente con tutto ciò crescono anche i vizi del musicista: donne, gioco d'azzardo, stupefacenti lo corrompono gradualmente fin nel profondo, ma non riesce a farne a meno (Urbani tollera e a volte incoraggia per il suo fine ultimo).
Arrivato a Londra, tra polemiche e manifestazioni per il suo comportamento libertino, il musicista conosce la giovane Charlotte, pura e candida fanciulla dalla voce angelica che, forse unica, riesce a farlo innamorare veramente, la sola capace di redimerlo dal suo passato. Però Urbani non può accettare ciò e, con ogni stratagemma a sua disposizione, fa sì che il rapporto tra i due si incrini irrimediabilmente. Da questo momento in poi Paganini non sarà più lo stesso.
Anche se il film non si rifà esattamente alle vere vicissitudine dell'artista mette comunque in mostra il suo genio, il suo talento, dono che in pochissimi hanno (la mobilità delle sue dita è dovuta, paradossalmente, ad una rara patologia). Per questa sua capacità venne addirittura definito come "il violinista del diavolo" in quanto si sosteneva che avesse stretto un patto con quest'ultimo pur di raggiungere il successo. 
Tutto ciò non toglie che Paganini fosse inarrivabile nel suo genere tanto che si arrivò a consideralo il primo violino al mondo. Il regista punta su questo aspetto scegliendo come interprete del maestro un altro grande artista contemporaneo, il violinista David Garrett che, come lo stesso Paganini, sperimenta usi nuovi per il suo strumento. Entrambi lo riadattano per musica non solo da camera ma anche per stili più "forti", sul rock andante, mostrando tutte le possibilità dello strumento stesso. Il primo, innovatore, autodidatta, compositore e improvvisatore di quasi tutti i brani che suonava (tanto che circolava il detto "Paganini non ripete") viene rappresentato nel film come l'antesignano del rocker moderno, cappotto lungo in pelle, occhialini tondi e scuri e capelli lunghi perennemente in disordine; il secondo, attraverso la sua interpretazione, potrebbe essere visto come il suo successore ipotetico (musicalmente parlando).
La pellicola, sottolineo, non deve quindi considerarsi come un film su Paganini in senso stretto (non è ovvero un biopic) perché le differenze con la realtà sono molte, ma va osservato dal punto di vista musicale, per cogliere le somiglianze che ci sono tra due diversi musicisti, ognuno dei quali unico nel suo essere, ma che condividono una passione comune: l'arte della musica, il violino.
Se siete curiosi di approfondire il tema prettamente musicale vi consiglio il post a tema del blog della mia amica Erica in cui troverete molte informazioni interessanti. Di seguito il link per la consultazione.
http://piccoliviaggimusicali.blogspot.it/2014/07/danza-ungherese-n5-4-topolino-e-cult.html?spref=fb
Se ben si guarda l'impostazione del film ricorda quella scelta da Milos Forman per il suo Amadeus (sulla figura di Mozart) che riscosse grande successo alla sua uscita. Questo per dire che se Rose avesse realizzato una pellicola fedele alla storia del violinista probabilmente nessuno o veramente pochi l'avrebbero guardata, io inclusa. Pertanto se vi va di vederla lasciatevi solo guidare dalla musica!
                                                                                                                                       3 e mezzo 
  

sabato 19 luglio 2014

La 25° ora: sogno o realtà?

Aujourd'hui mes chères vi propongo un film che fin dalle prime scene mi è piaciuto moltissimo e sono davvero poche le pellicole capaci di catturarmi dall'inizio alla fine! Ecco quindi La 25° ora di Spike Lee.
L'azione si svolge tutta a New York dove il protagonista, Monty Brogan, fa di "mestiere" lo spacciatore di droga; tuttavia viene incastrato da un conoscente, spacciatore anche lui, che non si fa problemi a venderlo alla polizia la quale trova nel suo appartamento svariati contanti e un chilo di eroina nascosti nell'imbottitura del divano. E' una magra consolazione per Monty scoprire chi l'ha tradito; la pena datagli è 7 anni di prigione. 
Monty, nella sua ultima giornata di libertà, ha 24 ore a disposizione da vivere, salutare amici e fidanzata e sistemare le cose con la sua coscienza. Non riesce però a capacitarsi pienamente dalla sua colpevolezza e, durante una cena con il padre, in un momento in cui si trova solo, inizia un lungo monologo in cui accusa tutto e tutti per la sua situazione; solamente alla fine capisce che in realtà la colpa è unicamente sua. 
Per "festeggiare" quest'ultimo giorno i suoi migliori amici, l'insegnante Jacop e l'agente di borsa Frank, e la sua fidanzata Naturelle gli organizzano una serata in discoteca che funga anche da tranquillante in vista di ciò che lo aspetta per i prossimi anni. Qui Monty si rende conto che per il suo aspetto fisico non avrà vita semplice in prigione; chiede quindi ai suoi amici il più grande favore che possano fargli per aiutarlo ad affrontare meglio il soggiorno forzato. 
Mentre è in macchina per raggiungere la prigione si ferma a pensare ad un'ipotetica venticinquesima ora e a cosa essa possa comportare; la scelta è sua se andare veramente in prigione o scappare..
Il film di Spike Lee è un vero e proprio omaggio sia alla città di New York che ai suoi abitanti, caratteri unici che rendono unica la stessa metropoli. La scelta poi di soffermarsi su di un solo personaggio, che in realtà mostra tutti gli altri, è particolarmente azzeccata perché permette a chi guarda il film di concentrarsi su di un'unica storia da cui si diramano tutte le altre. Monty rappresenta quasi il prototipo di newyorkese doc, ormai piccola minoranza in una città in cui predominano immigrati di diverse etnie; bianco, pallidino, magrolino, con la faccia da bravo ragazzo e umanamente predisposto alle buone azioni non può più sopravvivere in una società di squali dominata da pochi ricchi con le mani "in pasta" come il suo amico Frank. E' destino che si cacci nei guai, volente o meno.
Strepitosa è la scena del monologo davanti allo specchio del bagno nella quale Monty, arrabbiato per la sua condanna e perché non si sente veramente colpevole, se la prende con tutti riversando, ipoteticamente, la sua rabbia su coloro che in qualche modo hanno corrotto la società in cui vive, soprattutto (e qui vuole porre l'accento Lee) dopo l'11 settembre, e che gli ha dato sette anni di prigione. Tuttavia, dopo lo sfogo, si rende conto che in realtà la colpa è solo sua e delle scelte sbagliate che nel corso della sua vita lo hanno progressivamente portato sulla cattiva strada. Accetta perciò con rassegnazione il suo destino sperando per il meglio.
Nella parte finale del film il regista offre però la possibilità a lui e a noi spettatori di vivere una presunta 25° ora in cui immaginare come potrebbe essere il futuro se si prendesse una strada diversa; cosa succederebbe se invece di andare a destra si andasse a sinistra? cosa succederebbe se si venisse meno ai propri principi per inseguire vane speranze? La 25° ora è sì un viaggio apparente nello spazio e nel tempo, ma lascia in ogni caso un margine di decisione: Monty farà la cosa giusta? Noi al suo posto cosa faremmo?
Numerosi sono inoltre i riferimenti nel film ad altre pellicole famose come a voler creare un sodalizio con le grandi opere che hanno fatto la storia del cinema americano e della città di New York nello specifico; uno su tutti è il rimando (scena dello specchio) a Taxi Driver di Scorsese, alcune inquadrature sono pressoché identiche a quelle di C'era una volta in America di Leone, il personaggio di Monty in qualche dialogo si riferisce a caratteri presenti in Wall Street di Stone e così via (non ve le dico tutte perché lascio il resto della ricerca a voi)! Solo per questo è da considerarsi un film imperdibile ma, badate bene, da guardare con molta attenzione perché le strade di New York trasformano la metropoli in un'imponente scacchiera in cui il re Lee gioca in casa ed è pronto a lanciare il suo "scacco matto".
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venerdì 18 luglio 2014

Il grande dittatore: Chaplin rules

Bon jour à tout le monde! Finalmente ho un po' di tempo per proporvi un bellissimo, quanto famosissimo film da vedere se non l'avete già fatto... per il suo tema e per come è stato affrontato rappresenta a tutti gli effetti un "evento straordinario". L'opera in questione è Il grande dittatore di Charlie Chaplin.
Un barbiere ebreo perde la memoria nel corso di un'azione militare durante la Prima Guerra Mondiale e neanche il lungo periodo di degenza in ospedale riesce a fargliela recuperare; tuttavia fa comunque ritorno al suo negozio per riprendere la sua vita. Qui però scopre che i soldati dello stato della Tomania (in cui vive) imbrattano le sue vetrine con scritte denigratorie dei confronti della popolazione ebrea e si ribella. Il ciò prevederebbe l'impiccagione, ma il comandante Schultz (al quale il barbiere salvò la vita durante quell'azione in cui perse la memoria) riesce ad evitarlo, ricambiando in qualche modo il favore. 
Però le cose, in apparenza ancora tranquille, stanno per cambiare in quanto il dittatore Hynkel ha mire espansionistiche sui paesi vicini e si prepara a far scoppiare un'altra guerra. Nel frattempo il barbiere, al momento sano e salvo, inizia a provare più di un sentimento di simpatia per la giovane Hanna, ragazza come lui abitante del ghetto che non sopporta i continui soprusi dei soldati. 
La sete di potere di Hynkel tuttavia non cessa neanche davanti a degli ostacoli (tanto che lo stesso Schultz e il barbiere vengono internati in un campo di concentramento) ed anzi richiede la collaborazione del suo alleato Napoloni per l'invasione dell'Ostria. Durante la prima rappresaglia però avviene un "curioso" incidente che porta tutti a scambiare Hynkel per il barbiere (si somigliano molto), che nel frattempo era riuscito a evadere dal campo con l'amico Schultz; quest'ultimo si prodiga in ogni modo possibile per far sì che tutti credano che il barbiere sia effettivamente il dittatore. La prova del nove sarà il discorso che dovrà tenere davanti al popolo dell'Ostria..
Il film di Chaplin viene considerato un evento straordinario perché girato nel 1940, quando ovvero la Seconda Guerra Mondiale era da poco scoppiata e il potere di Hitler all'apice. La pellicola è una vera e propria parodia, non solo del dittatore tedesco, ma anche del suo alleato Mussolini volta a mettere in ridicolo tutti i loro comportamenti tipici e gli stereotipi del loro agire. Non a caso a dir poco geniale è la scena del dialogo tra i due nella residenza di Hynkel in cui entrambi cercano ogni stratagemma possibile per prevaricare l'altro in modo da metterlo, idealmente e non, in secondo piano. 
Altrettanto "dissacrante" nei confronti del regime è scelta adottata dal regista di far corrispondere la figura del dittatore a quella del barbiere ebreo; in questo modo quando il secondo viene scambiato per il primo non si nota nessuna differenza fisica, ma grande è invece quella sul piano ideologico. Il solo fatto quindi di soppiantare il Führer con un personaggio ebreo rappresenta un enorme smacco per Hitler in primis e per tutto il regime di conseguenza. 
Chaplin lo sa bene quando decide di realizzare quest'opera e ammette anche che se avesse solo ipotizzato a cosa sarebbe giunta la follia nazista probabilmente non se la sarebbe mai sentita di girare una parodia sul tema; tuttavia questo film serve anche e soprattutto per mostrare la sua presa di posizione nei confronti dello stesso regime. Il discorso finale infatti rappresenta idealmente il suo pensiero.
Nonostante le varie censure e i divieti di distribuzione in Europa in quegli anni il film riceve svariate nomination e premi che mostrano come esso sia un'opera di inestimabile valore artistico e morale; a tutt'oggi rimane uno dei maggiori capolavori dell'intera storia del cinema.
Vi segnalo un ottimo post a tema musicale legato alla scena in cui Chaplin/barbiere sta radendo un cliente sulle note di Brahms.
http://piccoliviaggimusicali.blogspot.it/2014/07/danza-ungherese-n-5-3-cult-movie-il.html?spref=fb
                                                                                                                                        4 e mezzo