lunedì 16 maggio 2016

Sorrisi di una notte d'estate: i tre sorrisi di Bergman

Bonsoir! Continua il "mini ciclo" (quattro pellicole) di film che ho recensito per il Festival e Accademia Dino Ciani lo scorso febbraio. Dopo l'opera che vi ho proposto il mese scorso di Woody Allen tocca questa volta ad un altro grande regista del cinema, svedese, della metà del 1900: Ingmar Bergman. Qui di seguito eccovi quindi Sorrisi di una notte d'estate
Friedrik, sposato con Anne molto più giovane di lui, è geloso del nipote Henrik e del rapporto che quest'ultimo instaura con la donna. Per consolarsi si reca da una vecchia fiamma, l'attrice Desirée, la quale ha un figlio, frutto dell'amore passato con Friedrik, ma che non vuole confessargli essere suo. Nel frattempo arriva a trovarla anche il suo attuale amante, il conte Malcom, che non si fa scrupoli a tradire la moglie. Nel tentativo di riconquistare il vecchio amore Desirée convince la madre a dare una festa a cui viene invitata l'intera compagnia; ne deriva un complesso gioco di scambi di coppia con numerose sorprese.
Bergman presenta il suo film al 9° Festival di Cannes vincendo il premio per l'"umorismo poetico". Non a caso la pellicola può essere considerata un perfetto connubio di commedia leggera e dramma; non mancano i rimandi al teatro sia per quanto riguarda la messa in scena, sia perché una delle protagonista impersona proprio un'attrice teatrale e sia infine per il richiamo nel titolo all'opera di Shakespeare. Anche in questo caso si assiste a un complesso gioco di scambio delle coppie; i vari protagonisti anelano ad ottenere la felicità attraverso il vero amore, chi cercando di riconquistare il proprio marito, chi lasciandolo per un altro e chi recuperando vecchie passioni.
In tutto ciò però si nota anche una riflessione da parte di Bergman sulla fragilità dei sentimenti amorosi e sulla solitudine, tema spesso presente nella poetica del regista, che deriva dalla sua stessa esperienza personale. Nessuno dei personaggi vuole stare da solo e ciò si nota soprattutto nella figura di Henrik che tenta persino il suicidio perché crede di non essere ricambiato. Ognuno di essi sfrutta tutte le carte in suo possesso per ottenere il tanto sospirato lieto fine.
Da ciò emerge inoltre come l'universo femminile, vero protagonista del film, sia notevolmente molto più scaltro e furbo del suo corrispettivo maschile; sono le donne, in questo caso Desirée, ad organizzare la messinscena della festa per fare in modo che gli uomini si decidano a compiere una scelta, prendendo atto della situazione. Bergman stesso, prediligendo un cinema con grandi personalità femminili lo evidenzia facendo pronunciare a Desirée la definizione di amore - un giocoliere con tre clave: cuore, parole, sesso - dandole il controllo di tutto il gioco. Dono tre anche i sorrisi della notte d'estate: quello per i giovani innamorati, quello per gli incoscienti e per gli sciocchi senza speranza e infine quello per tutti coloro che hanno trovato la pace e la gioia di vivere in un'anima gemella.
Nonostante la presenza della morte, altro stilema del cinema bergmaniano, sia sempre costante, anche solo velatamente, la pellicola di conclude con un lieto fine per tutti mostrando come l'amore in fin dei conti vince sempre.
                                                                                                                                      4 e mezzo 

sabato 23 aprile 2016

Una commedia sexy in una notte di mezza estate: Allen e la campagna

Bonjour mes chèrs! Il film del giorno è un'opera realizzata da uno dei registi più famosi, apprezzati e sì anche anticonformisti... Woody Allen è da sempre una personalità a sé fin dagli inizi della sua carriera cinematografica negli anni '60. Quello che vi propongo oggi non è uno dei suoi film più famosi, ma è comunque una commedia leggera, auto-ironica e briosa; eccovi Una commedia sexy in una notte di mezza estate
Inizi del '900. Tre coppie di amici decidono di trascorrere il fine settimana in campagna nella casa di uno di loro. Si conoscono tutti, avendo alle spalle trascorsi chi più chi meno amorosi. I padroni di casa, Andrew w Adrian, una coppia in crisi con un matrimonio ormai privo di qualsiasi emozione, accolgono Maxwell, amico di Andrew, medico libertino accompagnato dall'altrettanto disinibita infermiera Dulcy e Ariel, ex fiamma di Andrew, che si appresta a convolare a nozze con il più anziano docente universitario, Leopold. Inevitabilmente ne nasce un complesso gioco di scambi di coppia tra equivoci, appuntamenti mancati e tentativi di recuperare occasioni passate.
In film non è considerato tra i capolavori di Allen, ma indubbiamente mostra una leggerezza priva del pessimismo che generalmente caratterizza tutto il suo cinema e una comicità spontanea che evita qualsiasi tipo di volgarità. Tutto si basa sul gioco dello scambio delle coppie. Andrew vuole recuperare l'occasione persa anni prima con Ariel, ma allo stesso tempo anche Maxwell si innamora di lei, Leopoldo convince Dulcy a passare con lui l'ultima notte di libertà prima di sposarsi con Ariel, Adrian si sente minacciata dalla presenza di quest'ultima e Ariel stessa nn sa più se la scelta che ha fatto è giusta. A ben guardare questo curioso e impossibile intreccio altro non è che una parodia fatta dal regista dell'opera teatrale di Shakespeare Sogno di una notte di mezza estate.
Tralasciando momentaneamente il lato leggero e comico il film è anche, e soprattutto, un affresco sul senso della vira e dei rapporti umani, tema tra i più cari ad Allen. Nessuno dei personaggi presenti è veramente soddisfatto della propria esistenza e vive il breve weekend come un momenti di evasione dalla quotidianità per riflettere sul come cercare di cambiare le cose, affidandosi il più delle volte all'imprevisto che sembra qui venir colto da chi è potenzialmente il meno adatto a farlo.
Inoltre, uno dei rari casi, lo scenario che fa da cornice alla vicenda non è New York, città scelta quasi sempre da Allen perché è quella in cui vive e dove è cresciuto, ma bensì la campagna del New Jersey, luogo idilliaco e bucolico con i suoi boschi, fiumi e prati, in cui consumare le proprie passioni. La città rimane quindi in lontananza, citata solo sporadicamente, come a voler sottolineare la monotonia della routine a cui è legata.
Il finale viene lasciato, per rendere il tutto ancora più surreale, ad una fluorescenza che annuncia uno spettacolo notturno da rifarsi gli occhi; agli spettatori rimane il compito di scoprirlo.
                                                                                                                                      3 e mezzo 

mercoledì 13 aprile 2016

Whiplash: scontro di talenti

Bonsoir! Questa sera cambiamo completamente tema dagli ultimi film e entriamo in campo musicale per parlare di una pellicola che ha ottenuto un enorme successo nel 2014 contro ogni aspettativa... Ecco quindi a voi Whiplash di Damine Chazelle.
Andrew è un giovane batterista che studia in una delle scuole più prestigiose d'America, lo Shaffer, e che vuole affermarsi diventando primo batterista jazz dell'orchestra del conservatorio. Questa è diretta dal temuto Terence Fletcher, inflessibile insegnante incubo di tutti i suoi allievi. Andrew tenta un provino riuscendo a diventare batterista di riserva; da questo momento inizia un training estenuante fatto di prove continue che causa al ragazzo calli e mani sanguinanti. Ciò però sembra non bastare; nulla è mai abbastanza per Fletcher che non si accontenta mai del risultato ottenuto, nemmeno quando Andrew viene promosso a prima batteria. C'è tuttavia un limite ai continui soprusi e il ragazzo lo scoprirà presto.
Whiplash è probabilmente il miglior film sul jazz del 2014; nasce come cortometraggio, ma il giovane regista Chazelle riesce a trasformarlo in un lungometraggio ampliandone la storia e approfondendone le tematiche. Il risultato è un enorme successo di critica e di pubblico aggiudicandosi addirittura tre Oscar. L'opera coniuga perfettamente due grandi matrici del cinema: il genere dei cosiddetti grandi domani musicali, giovani talenti in divenire, e la vittoria dello spirito su tutto il resto (il tema ovvero del "self-made man" americano). Il perfetto equilibrio tra le due parti genera una storia classica ma al contempo molto attuale in cui qualsiasi giovane con un sogno nel cassetto si rispecchia.
Punto centrale della trama è infatti il rapporto conflittuale tra un ragazzo che cerca il proprio posto nel mondo e il suoi insegnante di musica. Quest'ultimo, grande un tempo, ora è docente in uno dei migliori conservatori del Paese e riversa le sue frustrazioni sui propri allievi costringendoli a prove estenuanti e orari improponibili perché siano impeccabili. E lo sono davvero! Il protagonista sa che se vuole diventare qualcuno, essere il migliore, deve stringere i denti e sopportare; con il passare dei giorni le mani si riempiono di piaghe e sanguinano ogni volta che prende in mano le bacchette, ma i suoi sforzi sembrano essere ripagati fino a quando non sbaglia. Sbagliare equivale a essere esclusi dall'orchestra.
Come il maestro crea la sua creatura così la può distruggere ed è esattamente ciò che fa Fletcher; umilia Andrew davanti a tutti e poi lo esclude sostituendolo. L'incontro/scontro che si instaura tra i due non è però una cosa del tutto negativa, anzi funge da processo di miglioramento individuale; il ragazzo capisce che il mondo, e soprattutto il mondo dell'arte, è una giungla e bisogna sfoderare gli artigli e guardarsi le costantemente le spalle. Solo in questo modo si sopravvive.
E' una vera battaglia per superare i propri limiti fisici, le proprie paure e dimostrare chi si è veramente e quanto si vale. Un esempio su tutti è il personaggio di Rocky Balboa, grande icona del riscatto dell'uomo americano contro chi non avrebbe mai scommesso un cent; Andrew ne è l'equivalente contemporaneo come lo è lo stesso regista che, giovanissimo, è riuscito a creare un film su uno strumento poco considerato, la batteria, e su un genere musicale non amato da tutti, il jazz. Impegnarsi, soffrire e sacrificarsi paga e Whiplash ne è l'esempio.
Bisogna credere sempre nei propri sogni, in quello che si fa senza arrendersi mai.
                                                                                                                                      4 e mezzo 

martedì 5 aprile 2016

La teoria del tutto: finché c'è vita, c'è speranza

Bonjour bijoux! Per restare in tema con il film precedente ho pensato di richiamare una pellicola, che come l'altra, è stata candidata agli Oscar lo scorso anno e ha ottenuto la statuetta per il Miglior Attore Protagonista. Facile indovinare no? Esatto, si tratta di La teoria del tutto di James Marsh.
Nel 1963 all'Università di Cambridge Stephen Hawking è un giovane cosmologo intento a trovare un'equazione unificatrice per spiegare la nascita dell'universo. Di lì a poco una terribile malattia degenerativa compare nella sua vita segnandone tutto il successivo percorso. Stephen però non è solo; Jane, studentessa di lettere conosciuta a una festa, diventa la sua ancora, il suo sostegno nonché sua moglie. Sarà lei a farsi carico della sua malattia accudendolo e aiutandolo quando non potrà più muoversi da solo. Diviso tra la famiglia e la malattia Stephen porta avanti nonostante tutto il suo lavoro presentando alla comunità scientifica la sua teoria sull'origine e la fine dell'universo; è solo l'inizio di un grande cammino.
Ci sono voluti tre anni per convincere Jane Wilde Hawking, ex moglie di Stephen, ad accettare la proposta della realizzazione di un film tratto dalla biografia "Verso l'infinito" che lei ha scritto sulla loro vita insieme. Alla fine però ha acconsentito dando il via libera a regista e sceneggiatore per l'inizio dei lavori. La teoria del tutto è infatti il primo film a raccontare sul grande schermo la vita di Stephen Hawking celebre fisico, astrofisico e cosmologo che ha rivoluzionato il mondo scientifico e non solo con le sue idee e la sua determinazione. Va specificato fin da subito che la pellicola di Marsh è soprattutto un'opera che privilegia l'aspetto personale, emozionale della vicenda di Hawking; tutti sono a conoscenza delle sue fenomenali scoperte scientifiche, ma non sanno cosa c'è dietro. Scopo è quello di provare a mostrarlo... Ecco quindi comparire sullo schermo un giovane Stephen in piena salute che si muove nei corridoi di Cambridge in cerca di prove per i suoi studi oppure che balla e si diverte alle feste; proprio ad una di queste incontra Jane, l'amore della sua vita. Sarà il forte rapporto con la ragazza a dargli il sostegno necessario quando scoprirà la malattia degenerativa che l'ha colpito; o meglio, sarà Jane a prendere in mano la situazione smuovendolo dall'isolamento in cui si è buttato, mostrandogli il modo di lottare per non farsi schiacciare. 
Quello che qui conta è mostrare i sentimenti, cuore pulsante della storia, che esistono tra Jane e Stephen, sentimenti che perdurano nel tempo anche quando l'uomo non potrà più comunicarli a parole. Saranno gli occhi (specchio dell'anima) a trasmettere a chi guarda il film tutto il mondo interiore di una delle personalità più importanti dell'ultimo decennio.
Interpretare un personaggio quale Stephen Hawking non è cosa assolutamente facile, soprattutto per un attore giovane, ma Eddy Redmayne, a cui è stata appunto affidata la parte, compie un notevole lavoro su se stesso. Trascorre mesi a studiare attentamente ogni intervista, filmato o documentario per osservare le espressioni e il modo di relazionarsi dello scienziato; lo incontra rimanendo completamente colpito dalla vastità di sentimenti presenti nei suoi occhi. Lo stesso Hawking assiste l'attore più volte sul set durante le riprese per aiutarlo a rendere al meglio l'idea del deterioramento del corpo giorno dopo giorno, mantenendo vivo però il carattere arguto, spiritoso e effervescente notoriamente conosciuto. 
Quello che viene di fatto proposto è un stupendo esempio di vita vissuta al massimo (tuttora in corso) nonostante le difficoltà; famosa è a riguardo la frase pronunciata da Stephen durante un incontro con il pubblico che racchiude perfettamente tutto il suo essere: "finché c'è vita, c'è speranza".
                                                                                                                                      4 e mezzo 

martedì 29 marzo 2016

Still Alice: combattere contro sé stessi per sé stessi

Bonsoir à tout le monde! Il film della serata è un film particolarmente interessante e delicato per il tema che tratta, ma è davvero molto molto bello... quindi ve lo propongo! Ecco a voi Still Alice.
Alice Howland è una splendida donna di mezza età, moglie, madre di tre figli e docente di linguistica alla Columbia University. Stimata da tutti ama il suo lavoro, scoprire il significato più recondito delle parole e trasmetterlo ai suoi studenti; le parole sono tutto e la sua memoria ne è piena. Un giorno però qualcosa non va; Alice non riesce a ricordare come si chiama un oggetto, un oggetto qualunque che usa quotidianamente... poco a poco questo episodico evento inizia a manifestarsi con maggiore frequenza. Preoccupata fa degli accertamenti medici e scopre di avere una rara forma di Alzheimer precoce che, neanche tanto lentamente, le sta portando via tutti i suoi ricordi. Da questo momento inizia per lei una battaglia per cercare di opporsi il più possibile a un male incurabile.
Still Alice è un film su una malattia, una delle più brutte che ci siano perché incurabile; tuttavia in esso non c'è nessuna pretesa di eroicità o esibizionismo. Viene semplicemente mostrato il cammino di una donna che, conscia del suo male, decide di lottare con tutte le sue forze per trattenere il più possibile i ricordi che formano la sua vita. Il regista stesso, Richard Glatzer, era affetto da sclerosi laterale amiotrofica e per tutto il tempo delle riprese ha comunicato con cast e troupe tramite l'uso di un ipad; pochi mesi dopo la fine del film si è spento. Ciò dimostra con ancora più intensità come l'opera voglia fungere, o almeno provarci, da palliativo; raccontando una storia di dolore e sofferenza in qualche modo cura chi lo guarda. Lo cura nel senso che dà una speranza, un incentivo in più a lottare e non lasciarsi abbattere anche quando si è perfettamente consapevoli che non c'è una via d'uscita.
Non ricordare le parole, i nomi delle cose, non riconoscere i propri figli, smarrirsi in città è un'esperienza terrificante per una persona già in là con gli anni, figuriamoci  per una che è ancora nel pieno della sua vita; Alice lo prova. All'inizio ne è sopraffatta, non lo dice a nessuno, ma quando capisce che avrà bisogno di aiuto si vede costretta a rivelarlo. Il marito, fin troppo assente e interessato solo alla carriera, deve rivedere le sue priorità, i figli devono prendere coscienza dello stato dei fatti e proprio da quella che è sempre stata la figlia più lontana arriva il sostegno maggiore. Ma il lavoro più grosso, quello più difficile lo fa Alice stessa. Pronunciando la frase "noi non siamo la nostra malattia" mostra una delle verità che spesso si tende a dimenticare; non ha senso (anche se è molto complicato non farlo) lasciarsi andare, lasciare che il male abbia il sopravvento. Per quanto possibile bisogna cercare di andare avanti opponendosi a lui e godendosi le piccole cose di tutti i giorni. Alice guarda avanti ma anche indietro riguardandosi in un video che lei stessa mesi prima aveva fatto proprio per darsi forza; una lei all'inizio della malattia che parla delle cose che stanno accadendo alla lei del qui e ora e che le "ricorda" di continuare a lottare.
Quella che emerge è dunque una storia di deriva, uno scomparire graduale di una donna e di tutto quello che ha costruito per essere ciò che è, ma è anche e soprattutto una storia di speranza, non per una cura che ancora non c'è, una speranza per chi tutti i giorni combatte contro mali incurabili e nonostante tutto non si lascia abbattere. Quella scintilla che emerge negli occhi di una splendida Julienne Moore, nella fantastica ma discreta interpretazione crea un'immedesimazione (nei limiti dei possibile) con chi guarda il film e lo trasporta per un breve lasso di tempo in una realtà che può, così all'improvviso, capitare a tutti.
Ma ricordiamolo ancora una volta "Noi non siamo la nostra malattia"!
                                                                                                                                                    4 

martedì 22 marzo 2016

Fantastic Mr Fox: quando il nascosto emerge in superficie

Bonsoir mes chèrs!! Per il film di questa sera ho deciso di fare un salto indietro di sei anni e proporvi una delle animazioni più belle che abbia mai visto (candidato tra l'altro anche agli Oscar nell'apposita categoria). Senza dirvi di più ecco quindi Fantastic Mr Fox di Wes Anderson!
Mr Fox, Fantastic Mr Fox, è una volpe che ormai da tempo ha rinunciato alla vita spericolata fatta di furti per il bene della sua famiglia; ora si dedica alla carriera giornalistica non troppo soddisfatto tuttavia dell'attuale situazione e neanche della tana in cui vive con moglie e figlio. Decide così che è tempo di traslocare in un maestoso albero in cima a una collina che però è pericolosamente vicino ai tre più spietati agricoltori della zona: Boggins, Bunce e Bean i quali non vedono l'ora di sbarazzarsi di lui. Con la complicità dei suoi amici del sottosuolo e del nipote venuto in visita, che tra l'altro supera in simpatia e astuzia il figlio dello zio, Mr Fox mette a punto un piano non solo con lo scopo di rubare il cibo ai nemici, ma per sconfiggerli una volta per tutte. Per quanto diabolica sia l'impresa c'è pur sempre il rischio di perderci la coda...
Fantastic Mr Fox è il primo film d'animazione che Anderson realizza, scegliendo per l'occasione la tecnica della stop motion (ovvero il passo uno); l'opera si ispira al libro di Roald Dahl, un racconto per bambini, che sembra inoltre essere anche il primo romanzo posseduto dal regista e quindi dal forte valore affettivo.
Protagonista indiscusso è Mr Fox, volpe intelligente ma anche molto vanitosa che dopo aver scoperto di diventare padre lascia la carriera di ladro per il bene della famiglia diventando giornalista. Tuttavia lo spirito d'avventura non lo abbandona mai completamente e con il passare del tempo riappare sempre più prepotentemente. Il figlio Ash non sembra volerne sapere di seguire le orme del padre, anzi appare come un adolescente scontroso e irritabile costantemente schiacciato dal peso del genitore da cui vorrebbe solo un po' di ammirazione. Le cose peggiorano con l'arrivo del nipote Kristofferson che dimostra un'indole molto simile a quella di Mr Fox il quale lo prende subito in simpatia. A moderare tutti i diverbi familiari c'è l'unica figura ragionevole del gruppo: Mrs Fox, la sola capace di tenere a freno il marito nelle sue fantasticherie e a riportare l'ordine. Felicity Fox si dedica alla sua vocazione artistica, spesso associata da Anderson ai caratteri femminili nei suoi film. Insomma fin da subito si può vedere quanto complesse e attuali siano le problematiche familiari e come esse siano facilmente paragonabili a quelle di una qualsiasi famiglia media.
Altrettanto attuali sono anche le tematiche sociali; non solo Mr Fox e famiglia rischiano di rimanere senza casa a causa dell'ingordigia di pochi, ma addirittura un'intera colonia di animali che vivono nel sottosuolo. In qualche modo questa immagine, che si potrebbe definire come " massa di ceto medio-basso sottoterra vs. pochi e ricchi capitalisti sopra", richiama uno dei film più famosi della storia del cinema: Metropolis di Fritz Lang. La storia si ripete: per sopravvivere bisogna lottare, unire le forze e solo così l'equilibrio potrà essere ristabilito almeno parzialmente.
Questa è certo una storia per bambini, ma analizzata nel suo significato più profondo mostra come l'ingordigia degli agricoltori, ma anche dello stesso Mr Fox che vuole a tutti i costi vivere in una casa più lussuosa, porta sempre a delle conseguenze, spesso negative. I tre vengono derubati dei loro prodotti mentre la volpe perde la sua coda, vanto del passato, e a momenti rischia anche la vita. Alla fine le volpi capiranno che vivere sottoterra nelle tane è proprio della loro natura e spetta loro decidere se spostarsi da un'altra parte o rimanere lì consci dei pericoli; allo stesso modo i capitalisti impareranno a rispettare gli animali convivendoci.
Anderson con questo film mostra l'importanza degli equilibri familiari, sociali... a cui sempre nel suo cinema dà grande valore. Dietro un'animazione fortemente dettagliata e una storia rielaborata per renderla accattivante e ironica per tutte le fasce d'età nasconde riferimenti e sottigliezze che solo i più attenti colgono. 
A voi scoprirli!
                                                                                                                                      4 e mezzo 

martedì 15 marzo 2016

Il caso Spotlight: guardare la realtà da un altro punto di vista

Bonsoir!! Eccoci ritornati ai film nominati per la statuetta più prestigiosa nel mondo del cinema: l'Oscar. Questa volta tocca, non poteva d'altronde non mancare, a quello candidato al titolo di Miglior Film e che poi si è effettivamente portato a casa il riconoscimento. Ecco quindi a voi la recensione dedicata a Il caso Spotlight di Thomas McCarthy.
Nel 2001 un gruppo di giornalisti investigativi del Boston Globe, riuniti sotto il nome "spotlight", guidati dal nuovo direttore Marty Baron inizia ad indagare sul caso di un sacerdote della diocesi di Boston che si presume abbia abusato per trent'anni, e tuttora lo faccia, di numerosi giovani. Il tutto senza che mai sia stato preso alcun tipo di provvedimento; anzi l'arcivescovo Law risulta essere a conoscenza dei fatti e sembra aver fatto di tutto perché la questione venisse insabbiata. Il gruppo di giornalisti, ben consapevole che l'avviare un'indagine del genere comporta accusare pubblicamente la Chiesa Cattolica, decide di dare avvio a una dolorosa ricerca delle prove; ciò significa parlare con i ragazzini abusati ormai diventati adulti che vorrebbero solo dimenticare, richiedere, e lottare per questo, delle informazioni secretate e soprattutto essere pronti alle conseguenze che un'indagine del tipo porterà. 
Il film diretto da McCarthy vuole essere un'opera che sconvolge per aprire gli occhi su una realtà che spesso non è quella che si crede. In questo caso sceglie di riportare fedelmente sullo schermo uno degli eventi più impattanti del 2001; uno dei maggiori scandali che ha colpito la Chiesa Cattolica. La diocesi di Boston infatti ha coperto, nella figura dell'arcivescovo Bernard Francis Law, per ben trent'anni gli abusi perpetrati da uno dei suoi preti a scapito dei ragazzini che frequentavano la chiesa. In seguito si scoprirà che i preti coinvolti in tali crimini erano addirittura più di settanta. Il Boston Globe con il nuovo direttore Marty Baron decide di affidare al gruppo Spotlight, giornalisti investigativi, la delicata indagine per fare luce sui fatti una volta per tutte; già in passato alcuni testimoni avevano chiesto al giornale di indagare sulla vicenda ma tutto era stato accantonato. Ora è il momento di agire. 
Spotlight si mette in moto: primo passo è cercare di parlare con le vittime degli abusi, persone ormai adulte e con famiglia che vorrebbero solo poter dimenticare. Chiedere loro di parlare, anche in forma anonima, significa riaprire una ferita mai sanata, ma purtroppo va fatto per ottenere giustizia. Ci vuole tatto, delicatezza, bisogna porre le giuste domande e tutto ciò non sempre è facile da rendere sullo schermo cinematografico, ma il regista si avvale di un ottimo cast in cui nessuno è davvero protagonista perché protagonista è l'indagine stessa. Ecco quindi che ogni componente trasmette il suo modo di relazionarsi ai fatti dando una versione d'insieme unitaria e rispettosa.
Il lavoro però non si limita solo a questo: scopo del film è mostrare il lento e faticoso processo attraverso il quale il gruppo di giornalisti ha dovuto passare per poter pubblicare l'articolo. Mettersi contro la Chiesa Cattolica non è cosa da poco; qualsiasi tipo di informazione che la concerne è inaccessibile e i passaggi per ottenerla sono molti e spesso non conducono dove si vorrebbe. E' un lavoro da archeologi; bisogna scavare, grattare sotto la superficie per arrivare al cuore della questione.
L'indagine vinse nel 2003 il Premio Pulitzer e servì da trampolino di lancio per un più grande lavoro di "pulizia", questa volta partito direttamente dall'interno, ad opera di Papa Francesco che prese provvedimenti anche di detenzione dentro le mura vaticane dei colpevoli. Una nuova strada è stata aperta, una via verso la consapevolezza che spesso, molto spesso, sotto una superficie in apparenza perfetta si nascondono tante piccole realtà che la incrinano sempre di più. Bisogna allora munirsi di microscopio e osservare attentamente.
                                                                                                                                      4 e mezzo