lunedì 16 maggio 2016

Sorrisi di una notte d'estate: i tre sorrisi di Bergman

Bonsoir! Continua il "mini ciclo" (quattro pellicole) di film che ho recensito per il Festival e Accademia Dino Ciani lo scorso febbraio. Dopo l'opera che vi ho proposto il mese scorso di Woody Allen tocca questa volta ad un altro grande regista del cinema, svedese, della metà del 1900: Ingmar Bergman. Qui di seguito eccovi quindi Sorrisi di una notte d'estate
Friedrik, sposato con Anne molto più giovane di lui, è geloso del nipote Henrik e del rapporto che quest'ultimo instaura con la donna. Per consolarsi si reca da una vecchia fiamma, l'attrice Desirée, la quale ha un figlio, frutto dell'amore passato con Friedrik, ma che non vuole confessargli essere suo. Nel frattempo arriva a trovarla anche il suo attuale amante, il conte Malcom, che non si fa scrupoli a tradire la moglie. Nel tentativo di riconquistare il vecchio amore Desirée convince la madre a dare una festa a cui viene invitata l'intera compagnia; ne deriva un complesso gioco di scambi di coppia con numerose sorprese.
Bergman presenta il suo film al 9° Festival di Cannes vincendo il premio per l'"umorismo poetico". Non a caso la pellicola può essere considerata un perfetto connubio di commedia leggera e dramma; non mancano i rimandi al teatro sia per quanto riguarda la messa in scena, sia perché una delle protagonista impersona proprio un'attrice teatrale e sia infine per il richiamo nel titolo all'opera di Shakespeare. Anche in questo caso si assiste a un complesso gioco di scambio delle coppie; i vari protagonisti anelano ad ottenere la felicità attraverso il vero amore, chi cercando di riconquistare il proprio marito, chi lasciandolo per un altro e chi recuperando vecchie passioni.
In tutto ciò però si nota anche una riflessione da parte di Bergman sulla fragilità dei sentimenti amorosi e sulla solitudine, tema spesso presente nella poetica del regista, che deriva dalla sua stessa esperienza personale. Nessuno dei personaggi vuole stare da solo e ciò si nota soprattutto nella figura di Henrik che tenta persino il suicidio perché crede di non essere ricambiato. Ognuno di essi sfrutta tutte le carte in suo possesso per ottenere il tanto sospirato lieto fine.
Da ciò emerge inoltre come l'universo femminile, vero protagonista del film, sia notevolmente molto più scaltro e furbo del suo corrispettivo maschile; sono le donne, in questo caso Desirée, ad organizzare la messinscena della festa per fare in modo che gli uomini si decidano a compiere una scelta, prendendo atto della situazione. Bergman stesso, prediligendo un cinema con grandi personalità femminili lo evidenzia facendo pronunciare a Desirée la definizione di amore - un giocoliere con tre clave: cuore, parole, sesso - dandole il controllo di tutto il gioco. Dono tre anche i sorrisi della notte d'estate: quello per i giovani innamorati, quello per gli incoscienti e per gli sciocchi senza speranza e infine quello per tutti coloro che hanno trovato la pace e la gioia di vivere in un'anima gemella.
Nonostante la presenza della morte, altro stilema del cinema bergmaniano, sia sempre costante, anche solo velatamente, la pellicola di conclude con un lieto fine per tutti mostrando come l'amore in fin dei conti vince sempre.
                                                                                                                                      4 e mezzo 

sabato 23 aprile 2016

Una commedia sexy in una notte di mezza estate: Allen e la campagna

Bonjour mes chèrs! Il film del giorno è un'opera realizzata da uno dei registi più famosi, apprezzati e sì anche anticonformisti... Woody Allen è da sempre una personalità a sé fin dagli inizi della sua carriera cinematografica negli anni '60. Quello che vi propongo oggi non è uno dei suoi film più famosi, ma è comunque una commedia leggera, auto-ironica e briosa; eccovi Una commedia sexy in una notte di mezza estate
Inizi del '900. Tre coppie di amici decidono di trascorrere il fine settimana in campagna nella casa di uno di loro. Si conoscono tutti, avendo alle spalle trascorsi chi più chi meno amorosi. I padroni di casa, Andrew w Adrian, una coppia in crisi con un matrimonio ormai privo di qualsiasi emozione, accolgono Maxwell, amico di Andrew, medico libertino accompagnato dall'altrettanto disinibita infermiera Dulcy e Ariel, ex fiamma di Andrew, che si appresta a convolare a nozze con il più anziano docente universitario, Leopold. Inevitabilmente ne nasce un complesso gioco di scambi di coppia tra equivoci, appuntamenti mancati e tentativi di recuperare occasioni passate.
In film non è considerato tra i capolavori di Allen, ma indubbiamente mostra una leggerezza priva del pessimismo che generalmente caratterizza tutto il suo cinema e una comicità spontanea che evita qualsiasi tipo di volgarità. Tutto si basa sul gioco dello scambio delle coppie. Andrew vuole recuperare l'occasione persa anni prima con Ariel, ma allo stesso tempo anche Maxwell si innamora di lei, Leopoldo convince Dulcy a passare con lui l'ultima notte di libertà prima di sposarsi con Ariel, Adrian si sente minacciata dalla presenza di quest'ultima e Ariel stessa nn sa più se la scelta che ha fatto è giusta. A ben guardare questo curioso e impossibile intreccio altro non è che una parodia fatta dal regista dell'opera teatrale di Shakespeare Sogno di una notte di mezza estate.
Tralasciando momentaneamente il lato leggero e comico il film è anche, e soprattutto, un affresco sul senso della vira e dei rapporti umani, tema tra i più cari ad Allen. Nessuno dei personaggi presenti è veramente soddisfatto della propria esistenza e vive il breve weekend come un momenti di evasione dalla quotidianità per riflettere sul come cercare di cambiare le cose, affidandosi il più delle volte all'imprevisto che sembra qui venir colto da chi è potenzialmente il meno adatto a farlo.
Inoltre, uno dei rari casi, lo scenario che fa da cornice alla vicenda non è New York, città scelta quasi sempre da Allen perché è quella in cui vive e dove è cresciuto, ma bensì la campagna del New Jersey, luogo idilliaco e bucolico con i suoi boschi, fiumi e prati, in cui consumare le proprie passioni. La città rimane quindi in lontananza, citata solo sporadicamente, come a voler sottolineare la monotonia della routine a cui è legata.
Il finale viene lasciato, per rendere il tutto ancora più surreale, ad una fluorescenza che annuncia uno spettacolo notturno da rifarsi gli occhi; agli spettatori rimane il compito di scoprirlo.
                                                                                                                                      3 e mezzo 

mercoledì 13 aprile 2016

Whiplash: scontro di talenti

Bonsoir! Questa sera cambiamo completamente tema dagli ultimi film e entriamo in campo musicale per parlare di una pellicola che ha ottenuto un enorme successo nel 2014 contro ogni aspettativa... Ecco quindi a voi Whiplash di Damine Chazelle.
Andrew è un giovane batterista che studia in una delle scuole più prestigiose d'America, lo Shaffer, e che vuole affermarsi diventando primo batterista jazz dell'orchestra del conservatorio. Questa è diretta dal temuto Terence Fletcher, inflessibile insegnante incubo di tutti i suoi allievi. Andrew tenta un provino riuscendo a diventare batterista di riserva; da questo momento inizia un training estenuante fatto di prove continue che causa al ragazzo calli e mani sanguinanti. Ciò però sembra non bastare; nulla è mai abbastanza per Fletcher che non si accontenta mai del risultato ottenuto, nemmeno quando Andrew viene promosso a prima batteria. C'è tuttavia un limite ai continui soprusi e il ragazzo lo scoprirà presto.
Whiplash è probabilmente il miglior film sul jazz del 2014; nasce come cortometraggio, ma il giovane regista Chazelle riesce a trasformarlo in un lungometraggio ampliandone la storia e approfondendone le tematiche. Il risultato è un enorme successo di critica e di pubblico aggiudicandosi addirittura tre Oscar. L'opera coniuga perfettamente due grandi matrici del cinema: il genere dei cosiddetti grandi domani musicali, giovani talenti in divenire, e la vittoria dello spirito su tutto il resto (il tema ovvero del "self-made man" americano). Il perfetto equilibrio tra le due parti genera una storia classica ma al contempo molto attuale in cui qualsiasi giovane con un sogno nel cassetto si rispecchia.
Punto centrale della trama è infatti il rapporto conflittuale tra un ragazzo che cerca il proprio posto nel mondo e il suoi insegnante di musica. Quest'ultimo, grande un tempo, ora è docente in uno dei migliori conservatori del Paese e riversa le sue frustrazioni sui propri allievi costringendoli a prove estenuanti e orari improponibili perché siano impeccabili. E lo sono davvero! Il protagonista sa che se vuole diventare qualcuno, essere il migliore, deve stringere i denti e sopportare; con il passare dei giorni le mani si riempiono di piaghe e sanguinano ogni volta che prende in mano le bacchette, ma i suoi sforzi sembrano essere ripagati fino a quando non sbaglia. Sbagliare equivale a essere esclusi dall'orchestra.
Come il maestro crea la sua creatura così la può distruggere ed è esattamente ciò che fa Fletcher; umilia Andrew davanti a tutti e poi lo esclude sostituendolo. L'incontro/scontro che si instaura tra i due non è però una cosa del tutto negativa, anzi funge da processo di miglioramento individuale; il ragazzo capisce che il mondo, e soprattutto il mondo dell'arte, è una giungla e bisogna sfoderare gli artigli e guardarsi le costantemente le spalle. Solo in questo modo si sopravvive.
E' una vera battaglia per superare i propri limiti fisici, le proprie paure e dimostrare chi si è veramente e quanto si vale. Un esempio su tutti è il personaggio di Rocky Balboa, grande icona del riscatto dell'uomo americano contro chi non avrebbe mai scommesso un cent; Andrew ne è l'equivalente contemporaneo come lo è lo stesso regista che, giovanissimo, è riuscito a creare un film su uno strumento poco considerato, la batteria, e su un genere musicale non amato da tutti, il jazz. Impegnarsi, soffrire e sacrificarsi paga e Whiplash ne è l'esempio.
Bisogna credere sempre nei propri sogni, in quello che si fa senza arrendersi mai.
                                                                                                                                      4 e mezzo 

martedì 5 aprile 2016

La teoria del tutto: finché c'è vita, c'è speranza

Bonjour bijoux! Per restare in tema con il film precedente ho pensato di richiamare una pellicola, che come l'altra, è stata candidata agli Oscar lo scorso anno e ha ottenuto la statuetta per il Miglior Attore Protagonista. Facile indovinare no? Esatto, si tratta di La teoria del tutto di James Marsh.
Nel 1963 all'Università di Cambridge Stephen Hawking è un giovane cosmologo intento a trovare un'equazione unificatrice per spiegare la nascita dell'universo. Di lì a poco una terribile malattia degenerativa compare nella sua vita segnandone tutto il successivo percorso. Stephen però non è solo; Jane, studentessa di lettere conosciuta a una festa, diventa la sua ancora, il suo sostegno nonché sua moglie. Sarà lei a farsi carico della sua malattia accudendolo e aiutandolo quando non potrà più muoversi da solo. Diviso tra la famiglia e la malattia Stephen porta avanti nonostante tutto il suo lavoro presentando alla comunità scientifica la sua teoria sull'origine e la fine dell'universo; è solo l'inizio di un grande cammino.
Ci sono voluti tre anni per convincere Jane Wilde Hawking, ex moglie di Stephen, ad accettare la proposta della realizzazione di un film tratto dalla biografia "Verso l'infinito" che lei ha scritto sulla loro vita insieme. Alla fine però ha acconsentito dando il via libera a regista e sceneggiatore per l'inizio dei lavori. La teoria del tutto è infatti il primo film a raccontare sul grande schermo la vita di Stephen Hawking celebre fisico, astrofisico e cosmologo che ha rivoluzionato il mondo scientifico e non solo con le sue idee e la sua determinazione. Va specificato fin da subito che la pellicola di Marsh è soprattutto un'opera che privilegia l'aspetto personale, emozionale della vicenda di Hawking; tutti sono a conoscenza delle sue fenomenali scoperte scientifiche, ma non sanno cosa c'è dietro. Scopo è quello di provare a mostrarlo... Ecco quindi comparire sullo schermo un giovane Stephen in piena salute che si muove nei corridoi di Cambridge in cerca di prove per i suoi studi oppure che balla e si diverte alle feste; proprio ad una di queste incontra Jane, l'amore della sua vita. Sarà il forte rapporto con la ragazza a dargli il sostegno necessario quando scoprirà la malattia degenerativa che l'ha colpito; o meglio, sarà Jane a prendere in mano la situazione smuovendolo dall'isolamento in cui si è buttato, mostrandogli il modo di lottare per non farsi schiacciare. 
Quello che qui conta è mostrare i sentimenti, cuore pulsante della storia, che esistono tra Jane e Stephen, sentimenti che perdurano nel tempo anche quando l'uomo non potrà più comunicarli a parole. Saranno gli occhi (specchio dell'anima) a trasmettere a chi guarda il film tutto il mondo interiore di una delle personalità più importanti dell'ultimo decennio.
Interpretare un personaggio quale Stephen Hawking non è cosa assolutamente facile, soprattutto per un attore giovane, ma Eddy Redmayne, a cui è stata appunto affidata la parte, compie un notevole lavoro su se stesso. Trascorre mesi a studiare attentamente ogni intervista, filmato o documentario per osservare le espressioni e il modo di relazionarsi dello scienziato; lo incontra rimanendo completamente colpito dalla vastità di sentimenti presenti nei suoi occhi. Lo stesso Hawking assiste l'attore più volte sul set durante le riprese per aiutarlo a rendere al meglio l'idea del deterioramento del corpo giorno dopo giorno, mantenendo vivo però il carattere arguto, spiritoso e effervescente notoriamente conosciuto. 
Quello che viene di fatto proposto è un stupendo esempio di vita vissuta al massimo (tuttora in corso) nonostante le difficoltà; famosa è a riguardo la frase pronunciata da Stephen durante un incontro con il pubblico che racchiude perfettamente tutto il suo essere: "finché c'è vita, c'è speranza".
                                                                                                                                      4 e mezzo 

martedì 29 marzo 2016

Still Alice: combattere contro sé stessi per sé stessi

Bonsoir à tout le monde! Il film della serata è un film particolarmente interessante e delicato per il tema che tratta, ma è davvero molto molto bello... quindi ve lo propongo! Ecco a voi Still Alice.
Alice Howland è una splendida donna di mezza età, moglie, madre di tre figli e docente di linguistica alla Columbia University. Stimata da tutti ama il suo lavoro, scoprire il significato più recondito delle parole e trasmetterlo ai suoi studenti; le parole sono tutto e la sua memoria ne è piena. Un giorno però qualcosa non va; Alice non riesce a ricordare come si chiama un oggetto, un oggetto qualunque che usa quotidianamente... poco a poco questo episodico evento inizia a manifestarsi con maggiore frequenza. Preoccupata fa degli accertamenti medici e scopre di avere una rara forma di Alzheimer precoce che, neanche tanto lentamente, le sta portando via tutti i suoi ricordi. Da questo momento inizia per lei una battaglia per cercare di opporsi il più possibile a un male incurabile.
Still Alice è un film su una malattia, una delle più brutte che ci siano perché incurabile; tuttavia in esso non c'è nessuna pretesa di eroicità o esibizionismo. Viene semplicemente mostrato il cammino di una donna che, conscia del suo male, decide di lottare con tutte le sue forze per trattenere il più possibile i ricordi che formano la sua vita. Il regista stesso, Richard Glatzer, era affetto da sclerosi laterale amiotrofica e per tutto il tempo delle riprese ha comunicato con cast e troupe tramite l'uso di un ipad; pochi mesi dopo la fine del film si è spento. Ciò dimostra con ancora più intensità come l'opera voglia fungere, o almeno provarci, da palliativo; raccontando una storia di dolore e sofferenza in qualche modo cura chi lo guarda. Lo cura nel senso che dà una speranza, un incentivo in più a lottare e non lasciarsi abbattere anche quando si è perfettamente consapevoli che non c'è una via d'uscita.
Non ricordare le parole, i nomi delle cose, non riconoscere i propri figli, smarrirsi in città è un'esperienza terrificante per una persona già in là con gli anni, figuriamoci  per una che è ancora nel pieno della sua vita; Alice lo prova. All'inizio ne è sopraffatta, non lo dice a nessuno, ma quando capisce che avrà bisogno di aiuto si vede costretta a rivelarlo. Il marito, fin troppo assente e interessato solo alla carriera, deve rivedere le sue priorità, i figli devono prendere coscienza dello stato dei fatti e proprio da quella che è sempre stata la figlia più lontana arriva il sostegno maggiore. Ma il lavoro più grosso, quello più difficile lo fa Alice stessa. Pronunciando la frase "noi non siamo la nostra malattia" mostra una delle verità che spesso si tende a dimenticare; non ha senso (anche se è molto complicato non farlo) lasciarsi andare, lasciare che il male abbia il sopravvento. Per quanto possibile bisogna cercare di andare avanti opponendosi a lui e godendosi le piccole cose di tutti i giorni. Alice guarda avanti ma anche indietro riguardandosi in un video che lei stessa mesi prima aveva fatto proprio per darsi forza; una lei all'inizio della malattia che parla delle cose che stanno accadendo alla lei del qui e ora e che le "ricorda" di continuare a lottare.
Quella che emerge è dunque una storia di deriva, uno scomparire graduale di una donna e di tutto quello che ha costruito per essere ciò che è, ma è anche e soprattutto una storia di speranza, non per una cura che ancora non c'è, una speranza per chi tutti i giorni combatte contro mali incurabili e nonostante tutto non si lascia abbattere. Quella scintilla che emerge negli occhi di una splendida Julienne Moore, nella fantastica ma discreta interpretazione crea un'immedesimazione (nei limiti dei possibile) con chi guarda il film e lo trasporta per un breve lasso di tempo in una realtà che può, così all'improvviso, capitare a tutti.
Ma ricordiamolo ancora una volta "Noi non siamo la nostra malattia"!
                                                                                                                                                    4 

martedì 22 marzo 2016

Fantastic Mr Fox: quando il nascosto emerge in superficie

Bonsoir mes chèrs!! Per il film di questa sera ho deciso di fare un salto indietro di sei anni e proporvi una delle animazioni più belle che abbia mai visto (candidato tra l'altro anche agli Oscar nell'apposita categoria). Senza dirvi di più ecco quindi Fantastic Mr Fox di Wes Anderson!
Mr Fox, Fantastic Mr Fox, è una volpe che ormai da tempo ha rinunciato alla vita spericolata fatta di furti per il bene della sua famiglia; ora si dedica alla carriera giornalistica non troppo soddisfatto tuttavia dell'attuale situazione e neanche della tana in cui vive con moglie e figlio. Decide così che è tempo di traslocare in un maestoso albero in cima a una collina che però è pericolosamente vicino ai tre più spietati agricoltori della zona: Boggins, Bunce e Bean i quali non vedono l'ora di sbarazzarsi di lui. Con la complicità dei suoi amici del sottosuolo e del nipote venuto in visita, che tra l'altro supera in simpatia e astuzia il figlio dello zio, Mr Fox mette a punto un piano non solo con lo scopo di rubare il cibo ai nemici, ma per sconfiggerli una volta per tutte. Per quanto diabolica sia l'impresa c'è pur sempre il rischio di perderci la coda...
Fantastic Mr Fox è il primo film d'animazione che Anderson realizza, scegliendo per l'occasione la tecnica della stop motion (ovvero il passo uno); l'opera si ispira al libro di Roald Dahl, un racconto per bambini, che sembra inoltre essere anche il primo romanzo posseduto dal regista e quindi dal forte valore affettivo.
Protagonista indiscusso è Mr Fox, volpe intelligente ma anche molto vanitosa che dopo aver scoperto di diventare padre lascia la carriera di ladro per il bene della famiglia diventando giornalista. Tuttavia lo spirito d'avventura non lo abbandona mai completamente e con il passare del tempo riappare sempre più prepotentemente. Il figlio Ash non sembra volerne sapere di seguire le orme del padre, anzi appare come un adolescente scontroso e irritabile costantemente schiacciato dal peso del genitore da cui vorrebbe solo un po' di ammirazione. Le cose peggiorano con l'arrivo del nipote Kristofferson che dimostra un'indole molto simile a quella di Mr Fox il quale lo prende subito in simpatia. A moderare tutti i diverbi familiari c'è l'unica figura ragionevole del gruppo: Mrs Fox, la sola capace di tenere a freno il marito nelle sue fantasticherie e a riportare l'ordine. Felicity Fox si dedica alla sua vocazione artistica, spesso associata da Anderson ai caratteri femminili nei suoi film. Insomma fin da subito si può vedere quanto complesse e attuali siano le problematiche familiari e come esse siano facilmente paragonabili a quelle di una qualsiasi famiglia media.
Altrettanto attuali sono anche le tematiche sociali; non solo Mr Fox e famiglia rischiano di rimanere senza casa a causa dell'ingordigia di pochi, ma addirittura un'intera colonia di animali che vivono nel sottosuolo. In qualche modo questa immagine, che si potrebbe definire come " massa di ceto medio-basso sottoterra vs. pochi e ricchi capitalisti sopra", richiama uno dei film più famosi della storia del cinema: Metropolis di Fritz Lang. La storia si ripete: per sopravvivere bisogna lottare, unire le forze e solo così l'equilibrio potrà essere ristabilito almeno parzialmente.
Questa è certo una storia per bambini, ma analizzata nel suo significato più profondo mostra come l'ingordigia degli agricoltori, ma anche dello stesso Mr Fox che vuole a tutti i costi vivere in una casa più lussuosa, porta sempre a delle conseguenze, spesso negative. I tre vengono derubati dei loro prodotti mentre la volpe perde la sua coda, vanto del passato, e a momenti rischia anche la vita. Alla fine le volpi capiranno che vivere sottoterra nelle tane è proprio della loro natura e spetta loro decidere se spostarsi da un'altra parte o rimanere lì consci dei pericoli; allo stesso modo i capitalisti impareranno a rispettare gli animali convivendoci.
Anderson con questo film mostra l'importanza degli equilibri familiari, sociali... a cui sempre nel suo cinema dà grande valore. Dietro un'animazione fortemente dettagliata e una storia rielaborata per renderla accattivante e ironica per tutte le fasce d'età nasconde riferimenti e sottigliezze che solo i più attenti colgono. 
A voi scoprirli!
                                                                                                                                      4 e mezzo 

martedì 15 marzo 2016

Il caso Spotlight: guardare la realtà da un altro punto di vista

Bonsoir!! Eccoci ritornati ai film nominati per la statuetta più prestigiosa nel mondo del cinema: l'Oscar. Questa volta tocca, non poteva d'altronde non mancare, a quello candidato al titolo di Miglior Film e che poi si è effettivamente portato a casa il riconoscimento. Ecco quindi a voi la recensione dedicata a Il caso Spotlight di Thomas McCarthy.
Nel 2001 un gruppo di giornalisti investigativi del Boston Globe, riuniti sotto il nome "spotlight", guidati dal nuovo direttore Marty Baron inizia ad indagare sul caso di un sacerdote della diocesi di Boston che si presume abbia abusato per trent'anni, e tuttora lo faccia, di numerosi giovani. Il tutto senza che mai sia stato preso alcun tipo di provvedimento; anzi l'arcivescovo Law risulta essere a conoscenza dei fatti e sembra aver fatto di tutto perché la questione venisse insabbiata. Il gruppo di giornalisti, ben consapevole che l'avviare un'indagine del genere comporta accusare pubblicamente la Chiesa Cattolica, decide di dare avvio a una dolorosa ricerca delle prove; ciò significa parlare con i ragazzini abusati ormai diventati adulti che vorrebbero solo dimenticare, richiedere, e lottare per questo, delle informazioni secretate e soprattutto essere pronti alle conseguenze che un'indagine del tipo porterà. 
Il film diretto da McCarthy vuole essere un'opera che sconvolge per aprire gli occhi su una realtà che spesso non è quella che si crede. In questo caso sceglie di riportare fedelmente sullo schermo uno degli eventi più impattanti del 2001; uno dei maggiori scandali che ha colpito la Chiesa Cattolica. La diocesi di Boston infatti ha coperto, nella figura dell'arcivescovo Bernard Francis Law, per ben trent'anni gli abusi perpetrati da uno dei suoi preti a scapito dei ragazzini che frequentavano la chiesa. In seguito si scoprirà che i preti coinvolti in tali crimini erano addirittura più di settanta. Il Boston Globe con il nuovo direttore Marty Baron decide di affidare al gruppo Spotlight, giornalisti investigativi, la delicata indagine per fare luce sui fatti una volta per tutte; già in passato alcuni testimoni avevano chiesto al giornale di indagare sulla vicenda ma tutto era stato accantonato. Ora è il momento di agire. 
Spotlight si mette in moto: primo passo è cercare di parlare con le vittime degli abusi, persone ormai adulte e con famiglia che vorrebbero solo poter dimenticare. Chiedere loro di parlare, anche in forma anonima, significa riaprire una ferita mai sanata, ma purtroppo va fatto per ottenere giustizia. Ci vuole tatto, delicatezza, bisogna porre le giuste domande e tutto ciò non sempre è facile da rendere sullo schermo cinematografico, ma il regista si avvale di un ottimo cast in cui nessuno è davvero protagonista perché protagonista è l'indagine stessa. Ecco quindi che ogni componente trasmette il suo modo di relazionarsi ai fatti dando una versione d'insieme unitaria e rispettosa.
Il lavoro però non si limita solo a questo: scopo del film è mostrare il lento e faticoso processo attraverso il quale il gruppo di giornalisti ha dovuto passare per poter pubblicare l'articolo. Mettersi contro la Chiesa Cattolica non è cosa da poco; qualsiasi tipo di informazione che la concerne è inaccessibile e i passaggi per ottenerla sono molti e spesso non conducono dove si vorrebbe. E' un lavoro da archeologi; bisogna scavare, grattare sotto la superficie per arrivare al cuore della questione.
L'indagine vinse nel 2003 il Premio Pulitzer e servì da trampolino di lancio per un più grande lavoro di "pulizia", questa volta partito direttamente dall'interno, ad opera di Papa Francesco che prese provvedimenti anche di detenzione dentro le mura vaticane dei colpevoli. Una nuova strada è stata aperta, una via verso la consapevolezza che spesso, molto spesso, sotto una superficie in apparenza perfetta si nascondono tante piccole realtà che la incrinano sempre di più. Bisogna allora munirsi di microscopio e osservare attentamente.
                                                                                                                                      4 e mezzo 

martedì 8 marzo 2016

The tree of life: la vita al microscopio

Bonjour à tout le monde! Lasciamo a macerare ancora un po' le conclusioni sugli Oscar e per il momento dedichiamoci ad altro... Infatti vi voglio parlare di un film che ha fatto molto discutere per come è stato girato; amato da alcuni, odiato da molti. A me personalmente è piaciuto parecchio e quindi ho deciso di riportarvelo alla memoria! Sto parlando di The tree of life di Terrence Malick.
Dopo un inizio che rappresenta effettivamente l'origine dell'universo dal Big Ben in poi ecco comparire la storia della famiglia O'Brien, nel Texas degli anni '50. Tutto viene visto attraverso gli occhi di Jack, uno dei figli e vero protagonista del film, ormai adulto da sempre diviso nel rapporto con i genitori. Il padre è un convinto sostenitore di un'educazione severa, punendo anche fisicamente i figli; la madre al contrario fa conoscere loro il valore dell'amore e dei sentimenti. Ne deriva per Jack un'evoluzione confusa che mal lo porta ad adattarsi nel mondo contemporaneo. In più a peggiorare la già complicata situazione affettiva sopraggiunge anche la morte di uno dei fratelli. Tante sono le risposte che l'uomo ha e le cerca in un viaggio a ritroso nel tempo che si conclude con una visione onirica...
Il film di Malick è un enorme flashback che inizia mostrando addirittura l'origine dell'universo con tanto di Big Ben, creazione del mondo, dinosauri e quant'altro per arrivare fino al Texas degli anni '50. Si tratta di un vero e proprio paragone che il regista fa tra Macro e Micro volto a mostrare le somiglianze che ci sono tra i due e come in realtà essi abbiano (nella giusta misura) le stesse problematiche; quello che succede nel Macro (l'evoluzione del mondo, l'estinzione dei dinosauri, la comparsa dell'uomo) è ciò che accede anche nel Micro (la creazione della famiglia, la morte, l'andare avanti guardando al futuro). In tutto questo Malick associa un flusso di musica costante per armonizzare e creare linearità nel continuo alternarsi dei due.
Il film è inoltre, e soprattutto, una ricerca costante sul senso della vita; il protagonista è un uomo sperduto all'interno della società contemporanea che cerca disperatamente di sopravvivere in un mondo che non sente suo. Intraprende così una ricerca a ritroso nel suo passato per elaborare i momenti belli e brutti della sua infanzia. Ecco quindi apparire, a chi guarda, i due pilastri della sua vita; da una parte il padre paragonato alla Natura in quanto forza violenta che vive per dominare e che non accetta altra verità se non la sua, dall'altra c'è invece la madre vista come la Grazia che impersona obbedienza e sacrificio. Entrambi trasmettono dei valori che sono in netto contrasto l'uno con l'altro. L'equilibrio familiare degli O'Brien  è perennemente in bilico decretando anche il senso di inadeguatezza in Jack. Quest'ultimo non a caso sviluppa un complesso di Edipo nei confronti della madre e detesta invece il padre con il quale non avrà mai un buon rapporto. Inoltre la morte prematura del fratello incrina ancora di più la superficie di cristallo sulla quale tutti si muovono; non va inoltre dimenticato che la storia è ambientata nell'America conservatrice della metà del '900 e quindi qualsiasi tipo di sentimentalismo, soprattutto se si tratta di un uomo, è caldamente sconsigliato. Non stupisce pertanto la difficoltà del protagonista di relazionarsi con gli altri e di non sentirsi a suo agio nel presente.
Malick però offre una specie di "via d'uscita", crea un finale che in realtà è una visione onirica nella quale Jack può ritrovare i suoi cari giungendo anche a una riconciliazione con il padre. Tutto viene perdonato, ogni accusa cancellata e ogni debito saldato; ciò permette a Jack di nascere una seconda volta, continuando il ciclo della vita. Micro e Macro di nuovo insieme.
                                                                                                                                                   4   
       

martedì 1 marzo 2016

Room: la fuga dal micro al macro

Bonsoir mes chèrs! Il film della serata è un'opera che merita di essere vista il maggior numero possibile di volte per la sua bellezza, ma soprattutto per il contenuto di cui tratta. Inoltre si è appena portato a casa anche l'Oscar come Miglior attrice protagonista. Capito di quale parlo? Esatto, è Room di Lenny Abrahamson.
Jack, bimbo di cinque anni, vive con sua madre Joy nella "Stanza", un angusto spazio isolato dal resto del mondo per volere di "vecchio Nick". La donna infatti sette anni prima è stata rapita, ancora adolescente, dall'uomo che da quel momento l'ha rinchiusa nel capanno del suo giardino impedendole di uscire e abusando ripetutamente di lei. Da questo malsano rapporto è nato Jack che altro non conosce se non quei pochi metri quadrati; ogni giorno, appena sveglio, saluta gli oggetti che ci sono (lavandino, sedie, armadio...). Quello è tutto il suo mondo, fuori c'è lo spezio che riesce a vedere solo da una piccola finestra sul tetto. L'unica distrazione è la tv, la scatola magica, che Jack crede contenga persone vere. Il bimbo però sta crescendo e inizia a fare domande alla madre che non sapendo come rispondere decide di dirgli la verità elaborando un piano per scappare finalmente dalla stanza.
Il film non è solo una storia triste e toccante di una ragazza rapita e segregata; è, purtroppo, una ricostruzione di un evento che fin troppo spesso sta accadendo nella società contemporanea (certo avveniva anche prima, ma non essendoci possibilità di denunciare non se ne veniva a conoscenza). Room è infatti l'adattamento del romanzo scritto da Emma Donoghue (anche sceneggiatrice) che si ispira al caso Fritzl di recente scoperta. La vicenda in questo caso è ambientata in una cittadina americana, zona apparentemente tranquilla in cui tutti si conoscono, ma dove un giorno la diciassettenne Joy non si presenta a scuola. Un uomo molto più grande di lei la rapisce per farne il desiderio delle sue fantasie. Joy da questo momento è sola; chiusa in un capanno, di cui non conosce il codice della porta blindata, è costretta a vivere giorno per giorno una monotonia senza fine. Ogni sera il "vecchio Nick" va a dormire da lei per poi andarsene la mattina; è prigioniera e nessuno sa dove si trovi. Un giorno dà alla luce Jack ("dono" che l'uomo non smette mai di ricordarle) e da quel momento la sua vita cambia; ora ha qualcosa per cui continuare a vivere, per cui lottare, qualcuno da proteggere dalla cattiveria del suo aguzzino. Il bimbo cresce così anno dopo anno pensando che quella, La Stanza, sia oltre che il suo mondo, tutto il mondo; oltre quelle quattro mura c'è lo spazio, luogo in qualche modo remoto e sconosciuto. A parte la madre le uniche persone che vede sono quelle in televisione, la scatola magica, capace di contenere uomini, animali e oggetti che Jack crede davvero abitino proprio lì dentro. 
Al compiere del suo quinto compleanno però qualcosa inizia a cambiare; Jack è un bambino curioso, fa domande intelligenti a sua madre, vuole sapere come funzionano le cose. Joy, dal canto suo, non ne può più di rimanere rinchiusa lì senza cure né libertà e coglie l'occasione per prendere in mano il suo destino e offrire la vita, quella vera, al figlio. Inizia da questo momento la trasformazione per entrambi, assumono una nuova consapevolezza: è arrivato il momento di agire. Dopo un'iniziale e comprensibile riluttanza del piccolo Joy mette a punto un piano per far uscire Jack dalla stanza e cercare quindi aiuto. Il bambino diventa ora il protagonista indiscusso del film; deve superare le sue paure, lasciare il mondo che fino a quel momento ha conosciuto e entrare nello spazio. E' una seconda nascita che equivale alla libertà; due destini nella mani di una creatura così piccola.
Il regista Abrahamson mostra con estrema delicatezza il passaggio dal micro, La Stanza, al macro, il mondo, attraverso gli occhi di un bambino che stupiti  guardano per la prima volta il cielo, il colore degli alberi, altre persone. Tutto, dal minimo dettaglio, viene colto per poter essere studiato; persino il desiderio più grande di Jack, avere un cane, può diventare realtà.
Il dramma psicologico che questo film racconta è tanto più forte perché a raccontarlo, seppur involontariamente, è un bimbo di cinque anni che, dopo aver guadagnato la libertà, deve essere ancora più forte per sostenere la madre che fatica a riabituarsi alla "normalità". Jack pertanto altro non è che un micro-supereroe di una macro-storia.
                                                                                                                                      4 e mezzo 


martedì 23 febbraio 2016

Rhytmus 21: quando il cinema diventa sperimentale

Bonjour carissimi! Oggi ho deciso di portarvi indietro nel tempo parlandovi di un film molto particolare. Lasciamo infatti perdere per un momento tutto quello che è cinema "moderno" per tornare ai primi anni del '900, nel 1921 per l'esattezza, e scoprire un curioso esempio di film sperimentale... 
In questi anni infatti, come ben saprete, spopolano nell'arte le avanguardie: futurismo, surrealismo, cubismo, dadaismo, astrattismo.. che stravolgono completamente i canoni artistici vigenti proponendo qualcosa di nuovo e innovativo. Questo accade anche nel mondo del cinema (eccezione per il movimento futurista che stranamente non fece uso di tale mezzo); alcuni artisti si improvvisano registi per dare forma a opere che definire strane è poco. A seconda del movimento di appartenenza la pellicola filmica subisce tagli improvvisi, graffi, sovraesposizioni di luce e chi più ne ha più ne metta...
Mi sembrava quindi cosa interessante proporvene un esempio! Il film che ho scelto per voi è dunque Rhytmus 21 di Hans Richter.
Questa volta non c'è una trama da introdurre in quanto risulterebbe un'operazione assai difficile. Mi limiterò perciò a raccontarvi qualcosa di questo artista e di come ha deciso di realizzare l'opera.
Richter è un artista, uno dei massimi sperimentatori dell'estetica cinematografica nonché un teorico della settima arte; inizia lavorando su esperimenti pittorici di tipo astratto perché sente l'esigenza di articolare lo spazio figurativo in un movimento che non si limiti ai margini canonici del quadro, ma che sbordi e fuoriesca. Ecco allora presentarsi l'opzione cinema! Nei suoi film, per lo più cortometraggi (vi assicuro che dopo aver visto 20 minuti di un qualche film astratto non capite più dove siete!) l'artista dà vita a esperimenti di composizione di oggetti in movimento collocandoli, in un secondo tempo, nei contesti più vari di carattere sociale o satirico. Quello che interessa a Richter è la ricerca di un linguaggio costituito da forme basilari che compaiono sullo schermo; facendo riferimento ai pittori cubisti riprende le tecniche di cutout commiste a grafica e disegni per creare delle sequenze di quadrati e rettangoli che si espandono e diradano unendole a dei disegni lineari. Così facendo scopre che è possibile progettare la trasformazione dinamica di segni nel tempo, un tempo che ben si può collegare anche all'espressione musicale in quanto il ritmo altro non è che quella sensazione che può provocare ogni espressione del movimento nel cinema. Infatti, se si nota, le musiche che sceglie sono molto particolari e inusuali, ma riescono perfettamente a integrarsi con il contenuto visivo.
Tutto questo, detto così, può apparire complicato e difficile da capire, ma vi assicuro che appena vedrete il film ogni cosa diventerà chiara... Il cinema, soprattutto quando si parla di avanguardie, è un mondo da scoprire a cui ognuno dà la propria personale interpretazione; una successione di figure geometriche accompagnate da una musica a volte anche fastidiosa (esistono sia la versione muta che quella sonora) può non suscitare nessuna reazione come aprire le porte ad una serie di collegamenti ad altre realtà. Che cosa saranno quei quadrati? Cosa contengono se contengono qualcosa? Muteranno forma o rimarranno statici? E se si scontrano tra loro cosa accade?
Non esiste una risposta giusta e spesso lo stesso autore dell'opera non ne dà una sua interpretazione proprio perché lascia che sia lo spettatore a farlo. Di conseguenza neanche io questa volta metterò il mio giudizio in lanterne lasciando a voi piena libertà... buona visione!




martedì 16 febbraio 2016

The danish girl: la metamorfosi di Lili

Bonsoir à tout le monde! Questa sera parliamo di un altro film candidato a 4 premi Oscar, tutti assolutamente azzeccati. Si tratta dell'ultimo lavoro di Tom Hopper: The danish girl.
Einar Wegener è un pittore paesaggista, molto affermato, che vive con la moglie nella Copenhagen dei primi anni del '900. La coppia conduce una vita in apparenza serena divisa tra eventi artistici e privato nel quale cercando di mettere su famiglia. Entrambi pittori sono sempre in sintonia e si sostengono ogni qualvolta c'è un insuccesso. Un giorno Gerda, moglie di Einar, chiede al marito aiuto per riuscire a terminare un quadro raffigurante un'amica ballerina e gli domanda perciò di indossare abiti femminili per poter meglio realizzare il personaggio. Da quel momento inizia un gioco tra i due che continua a un evento mondano in cui Einar, con la complicità di Gerda stessa, si presenta vestito da donna. Prende così forma la figura di Lili Elbe che man mano acquisterà sempre più spessore nella vita della coppia.
Il regista Tom Hopper, dopo le notevoli prove de Les Misérables e Il discorso del re, si cimenta con un'altra sfida impegnativa; basandosi sul romanzo di David Eberhoff mette in scena la storia di Lili Elbe, una delle prime persone ad essere identificata come transessuale e anche una delle prime ad essere sottoposta a un intervento chirurgico di riassegnazione sessuale. Per interpretare una figura così complessa e delicata sceglie Eddy Redmayne, attore dalla spiccata recitazione espressiva, capace di restituire molto bene sullo schermo tutte le emozioni interiori provate dal personaggio.
Lili infatti presenta una serie di sfumature ben delineate; fin dall'inizio, da quando ovvero è ancora Einar Wegener, si nota il suo desiderio, molto forte, di palesarsi. Emerge infatti il rifiuto di Einar per il suo corpo, per ciò che indossa; non si sente a suo agio con gli altri tanto da evitare tutti i possibili eventi mondani. Ma quando inizia a vestire i panni di Lili tale insicurezza non svanisce del tutto, sente che in lui/lei c'è qualcosa di diverso; interroga diversi medici per capire l'origine di ciò, ma è costretto a fuggire per non essere rinchiuso come schizofrenico o anormale. Lili c'è, esiste e prende sempre più forma nel corpo di Einar, ma come mostrarla? Osservando le altre donne, copiandone di nascosto i gesti, le pose, il modo di relazionarsi agli uomini. Non basta semplicemente indossare una sottoveste in seta e scarpe col tacco; bisogna essere donna in tutti i sensi. E qui entra in gioco Gerda, fedele moglie e amica, che neanche per un solo istante lascia Einar nella sua metamorfosi in Lili, supportandolo in ogni decisione per quanto pienamente consapevole che così facendo perderà suo marito.
Anche lei, al pari di Lili, è una figura complessa che Hopper mette ben in evidenza. Fin da subito si mostra come il talento artistico del marito oscuri il suo e come quest'ultimo sbocci pienamente nel momento in cui il soggetto dei suoi quadri inizia a essere Lili (quasi una figura ingombrante a volte). Gerda però non viene mai messa in secondo piano; lei è lì, presente in ogni momento anche quando non appare fisicamente nella scena. Einar non ce l'avrebbe mai fatta senza il suo supporto, probabilmente non avrebbe neanche mai preso la decisione di operarsi se lei non l'avesse incoraggiato ad essere se stesso fino in fondo senza nascondersi più. Il personaggio di Gerda è sì forte, ma anche estremamente fragile; il suo bisogno di diventare madre e la ricerca costante di esserlo nascondono una necessità di sentirsi donna appieno (un equivalente di mostrarsi in pubblico Lili per Einar), cosa che non potrà mai avvenire in tali circostanze; nonostante tutto però sceglie di rimanere federe al marito fino in fondo, sacrificando la sua felicità. Alla fine, in un modo o nell'altro (e non è detto che sia positivo), entrambi troveranno la serenità.
Lili e Gerda, ognuna a suo modo, sono due figure particolari; sole nel portare avanti le proprie convinzioni in una società che non è ancora pronta per accettarle e che pertanto le respinge isolandole, ma non per questo si lasciano scoraggiare, anzi le rendono ancora più forti e combattive!
                                                                                                                                                    4

lunedì 8 febbraio 2016

La migliore offerta: un uomo al centro dell'arte

Bonsoir!! Interrompo un momento i film dedicati alla notte degli Oscar per fare un salto nell'arte e proporvi un'opera di un paio d'anni fa molto interessante e per niente scontata. Si tratta di La migliore offerta di Giuseppe Tornatore.
Il richiestissimo e noto battitore d'aste, Virgil Oldman (un nome un programma!), è un uomo in apparenza tranquillo; vive solo, ha una mania per il controllo e il pulito, indossa sempre guanti ed è molto pignolo nel suo lavoro. Con la complicità dell'amico Billy nel corso degli anni è riuscito a impossessarsi di una fortuna in quadri; è il proprietario infatti di una vasta collezione di ritratti femminili custoditi gelosamente in una stanza di casa sua a cui solo lui ha accesso. Un giorno riceve una strana telefonata da parte di una ragazza che vuole sia lui a occuparsi della valutazione degli oggetti che possiede per poterli vendere. Seppur con riluttanza Virgil accetta l'incarico, ma non riesce mai a incontrarsi con la giovane la quale, affetta da agorafobia, preferisce tenere con lui un rapporto telefonico. Tuttavia con il passare dei giorni la relazione tra i due cambia, diventando più intima e personale finché Claire, questo il nome della ragazza, si mostra a Virgil. Da questo momento il mondo del battitore d'aste cambia completamente; non più freddo e meticoloso, ma più attento agli altri (Claire soprattutto) e ai sentimenti. Ciò avrà notevoli conseguenza sul suo futuro prossimo.
La migliore offerta è forse il film più internazionale di Tornatore: girato completamente in inglese vanta un cast di tutto rispetto ad iniziare dal protagonista Virgil/Geoffrey Rush e dal suo amico Billy/Donald Sutherland. Lo stile stesso della pellicola si nota essere molto più "europeo" che italiano; scorrevole, senza punti morti, accattivante quando serve e con un pizzico di mistero che permane fino alla fine.
Tema centrale è l'arte; quando Virgil ci porta nella sua stanza segreta possiamo ammirare numerose opere raffiguranti soggetti femminili che vanno dal XV al XX secolo. Tra gli artisti che compaiono si possono ammirare Raffaello, Tiziano, Dürer, Rubens, Goya, Renoir e molti altri. Le signore dei dipinti sono inoltre le uniche con cui il protagonista abbia mai intessuto una relazione; un amore puramente platonico, ma pur sempre sincero e incondizionato. Non a caso quando Virgil riceve la telefonata di Claire e accetta di lavorare per lei il suo modo di rapportarsi, non solo a una donna, ma agli altri cambia completamente; tutte le regole vengono infrante, l'interessa passa da una figura su tela a una in carne e ossa. 
Per guidarci un questa specie di metamorfosi e di evoluzione, del protagonista ma anche del film, Tornatore escogita un particolare espediente. Durante il primo sopralluogo alla villa di Claire il battitore d'aste trova alcuni pezzi di uno strano congegno che fa esaminare ad un amico; nelle successive visite ne trova molti altri che ben presto scopre appartenere a un automa costruito da Jacques de Vaucanson, illustre inventore del XVIII secolo capace di stupire tutti con le proprie creazioni. Man mano che la storia procede l'automa prende forma, due cose completamente diverse ma intrecciate; più quest'ultimo viene costruito più noi spettatori riusciamo a capire il film (la trama non è così semplice come appare) fino all'epilogo conclusivo.
Tutto infatti non è altro che un gioco tra realtà e finzione; bisogna solo capire dove finisce una e inizia l'altra e ciò si può fare cogliendo attentamente i dettagli che il regista dissemina durante il film. Il celarsi di Claire è uno stimolo segreto alla scoperta, scoperta che Virgil fa a sue spese, ma anche il nascondere le opere d'arte agli occhi del mondo per un uso privato fatto dall'uomo funge da stimolo perché esse diventino di altri.
Virgil, che all'inizio della storia ci appare come un uomo perfetto ma solo, finisce per rimanere un uomo solo, ma meno perfetto, una creatura in balia di una tempesta di emozioni che lo travolgono lasciandolo stordito a riflettere sul suo domani.
                                                                                                                                      3 e mezzo 

venerdì 5 febbraio 2016

Revenant: la sfida di DiCaprio

Eccomi di nuovo qui! 
E' tempo di iniziare a parlare un po' dei film in lizza, per una nomination o per l'altra, all'Oscar, la famosa statuetta placcata oro sogno o incubo di molti nel mondo della settima arte. Oggi in particolare ho scelto di proporvi il film su cui forse si riversano le maggiori attese, se non altro per il suo protagonista notoriamente sfortunato in tale circostanza... Avete capito a quale mi riferisco? Esatto: Revenant di Alejandro González Iñárritu.
Anni '20 del 1800. Un gruppo di soldati americani, cacciatori di pelli, viene attaccato da degli indiani che vogliono riprendersi ciò che è loro. In pochi, una dozzina, si salvano e guidati da Hugh Glass, l'uomo che meglio di tutti conosce quelle terre impervie e pericolose, cercano di far ritorno al loro fortino. Nascosto il bottino in attesa di tempi migliori il manipolo si mette in cammino, ma ben presto Hugh viene attaccato e quasi ucciso da una femmina di Grizzly. In fin di vita, per volere del comandate, viene trasportato fin quando possibile poi lasciato in custodia al figlio, a un giovane e ingenuo soldato e al cacciatore Fitzgerald che cerca ben presto, nonostante la promessa fatta, di liberarsi di lui per raggiungere gli altri e riscuotere il premio promesso. Lasciato solo, dopo aver assistito all'omicidio del figlio per mano dello stesso Fitzgerald, a Hugh non rimane che la sua voglia di vendetta per non soccombere alla morte e continuare a lottare...
La realizzazione del film ha inizio già nel 2001 e, dopo vari tentativi andati a male e più sostituzioni, si è giunti alla regia di Iñárritu che fin da subito ha impresso il suo stile all'opera. La trama si ispira, almeno parzialmente, alla vita del cacciatore di pelli Hugh Glass che, nonostante le numerose e mortali ferite riportate dopo l'attacco di un Grizzly, è riuscito a sopravvivere. 
Le riprese sono state effettuate tra il Canada e la Terra del Fuoco in Argentina, ambientazioni ottimali per descrivere e ricreare al meglio i paesaggi in cui si è mosso il cacciatore; il clima prevalentemente freddo e rigido (le scene sono state girate in autunno e in inverno) ha sfiorato minime di -30° mandando persino in tilt le camere degli operatori. Tutto ciò però ha contribuito a rendere la recitazione del cast molto più convincente. Inoltre, per volere dello stesso regista, non si è fatto ricorso né alla CGI né al green screen per far sì che gli sforzi e la fatica fatta fossero davvero reali.
Un grande aiuto arriva anche dal direttore della fotografia, Lubezki; la pellicola infatti è interamente girata con luce naturale e prevalentemente in esterno (non a caso una delle varie Nomination agli Oscar è proprio per la fotografia). Magistrali sono alcuni scorci, i tramonti con quel bagliore di fuoco e l'immortalare la forza degli elementi come il fiume in cui si getta Glass per scampare ad un assalto indiano. La natura viene qui esaltata in tutta la sua magnificenza e crudezza.
Una parentesi però va dedicata (altra candidatura) al protagonista: Leonardo DiCaprio. Non serve spendersi sulla sua capacità attoriale ormai consolidata e assicurata; anche in questo caso dà una performance più che eccellente entrando completamente nei panni di Hugh Glass. Tra carichi di oltre 45 kg sotto forma di pellicce di alce e orso e bronchiti provocate dal lavorare a -40° DiCaprio rivela la vera essenza, quella più intima dettata dalla rabbia e dal desiderio di vendetta, del cacciatore. Non dimentichiamo poi che per 3/4 del film non proferisce parola e l'unico suono che emette è un roco gorgoglio; tutto si gioca sulla fisicità a cui spetta il compito di esprimere un ampio spettro di emozioni. Solo, mortalmente ferito, questa sottospecie di supereroe sopravvive trascinandosi sui gomiti, mangiando erba, non congelandosi dopo un lungo bagno nel fiume ghiacciato e uscendo persino illeso dopo un salto in un burrone con conseguente schianto su di un albero.
Tralasciando questi eccessi, che d'altronde rientrano tra gli stilemi di Iñárritu, il film riesce a catturare l'attenzione del pubblico concludendo con un finale aperto che lascia spazio alle interpretazioni del singolo sul destino di Hugh.
                                                                                                                                      4 e mezzo 


martedì 2 febbraio 2016

The Martian: creare il grande dal piccolo

Bonsoir mes chèrs! Il film di oggi è completamente diverso da quello postato l'ultima volta, ma ha comunque qualcosa in comune: l'utilizzo delle proprie conoscenze per usufruire al meglio la natura. Dall'animazione mi sposto alla fantascienza e vi propongo un film uscito qualche mese fa che ha segnato il ritorno di Ridley Scott al suo cinema migliore. Eccovi dunque The Martian.
L'equipaggio di Ares 3 si trova in missione su Marte per una serie di studi, ma a causa di una forte tempesta uno dei componenti, Mark Watney, viene colpito da un detrito e separato dagli altri. Credendolo morto la squadra lascia il pianeta per fare ritorno sulla Terra; tuttavia Mark è ancora vivo e al suo risveglio scopre di essere rimasto solo, ferito e senza molti viveri oltre che mezzi per mettersi in contatto con la NASA. Realista circa le sue attuali condizioni e quelle di Marte stesso Mark sceglie di lottare e sopravvivere; fortuna vuole che sia un ingegnere meccanico e un botanico. Trova infatti un modo per coltivare l'arida terra del pianeta costruendo una serra e producendo letteralmente l'acqua per dare vita ad una coltivazione di patate all'interno del modulo in cui vive. Grazie a vecchi congegni della NASA, resti di precedenti missioni, Mark riesce anche a mettersi in contatto con la Terra che mette in atto un piano per salvarlo. E' una corsa contro il tempo che non manca di numerosi problemi a cui far fronte.
Per realizzare The Martian Ridley Scott si rifà al libro di Andy Weir L'uomo di Marte cercando di essere il più realistico possibile nella definizione di tutti e dettagli. Si affida inoltre ad una consulenza particolare della NASA che gli garantisce addirittura una équipe apposita per rispondere alle sue domande. Oltre a questo però il film, fantascienza a tutti gli effetti, si concentra in particolar modo sulla scienza mostrando come essa venga sfruttata dal protagonista per sopravvivere; dal nulla Mark riesce a ricreare una piantagione di patate (definendosi per questo il "miglior biologo del pianeta"!) che gli permetterà di prolungare il suo soggiorno su Marte in attesa di un qualche aiuto dalla NASA. Il pianeta rosso qui viene mostrato nella sua vera essenza: un luogo freddo e inospitale, desolato deserto di crateri solcato da forti venti che rende quasi del tutto impossibile viverci. Un posto insomma per nulla attraente in cui ricreare una "seconda vita" come da un po' di tempo a questa parte gli scienziati cercano di allettarci. La vera sfida che si combatte è tra l'uomo, solo, e un pianeta intero.
Scott gioca su quest'ultimo punto per ricreare dei rimandi al cinema del passato; le lunghe e solitarie escursioni di Matt Damon a bordo del rover ricordano molto le cavalcate nella Monument Valley dei cowboy di Ford, personalità solitarie chiamate a confrontarsi con l'immensità della natura.
Non c'è inoltre nessun intento di grandezza; tutto si concentra sulle possibilità e sull'ingegno di un singolo individuo che deve rimboccarsi le maniche e sporcarsi le mani perché nessuno lo salverà molto presto. Lo stesso spirito patriottico americano, che generalmente è simbolo di questo genere di film, viene ridimensionato; il regista mostra la NASA (uno dei maggiori emblemi dell'America) in forte difficoltà, indecisa sul come affrontare il "problema Mark" e costretta infine, causa insuccesso, a chiedere l'aiuto della Cina per mantenere intatta la sua facciata.
Mark-Matt diventa sì l'uomo dello spazio, ma rimane sempre un biologo prima di tutto, colui che ha creato qualcosa di piccolo ma necessario alla sua sopravvivenza da pressoché nulla, E' questo che vuole trasmettere Scott stesso: rimanere con i piedi ben piantati per terra volgendo lo sguardo all'universo.
                                                                                                                                      3 e mezzo 

domenica 24 gennaio 2016

Pocahontas: chi è il vero selvaggio?

Bonjour à tout le monde! Oggi vorrei parlarvi di un film che sicuramente tutti avete visto, chi per curiosità, chi perché ha figli o semplicemente perché vi piace il genere (come a me!), puntando però l'accento su un tema in particolare che più avanti vi svelerò... Intanto vi dico di che pellicola si tratta: Pocahontas, prodotta dalla Disney nel 1995.
Agli inizi del 1600 una nave inglese sbarca sulle coste dell'attuale Virginia, allora luogo selvaggio e incontaminato. Tra loro c'è John Smith, avventuriero alla ricerca di nuove esperienze più che dell'oro. Il luogo però non è completamente disabitato; quei boschi sono la casa della tribù indiana dei Powhatan che vive da anni in completa armonia con la natura rispettandone tutte le creature. John, inoltratosi un giorno nel profondo del bosco, incontra Pocahontas, principessa figlia del capo tribù; sarà lei a salvargli la vita e a mostrargli il senso profondo delle cose facendogli scoprire il rispetto per l'ambiente.
Pocahontas non è il classico film Disney su di una principessa che ha bisogno di essere salvata e cerca il principe azzurro. In linea con un'altro capolavoro della casa di animazione, La Bella e la Bestia, anche in questo caso viene mostrata un'eroina femminile dalla forte personalità, con uno spirito libero e fiera di essere ciò che è. Pocahontas sa perfettamente quello che vuole, è disposta a lottare fino in fondo per ottenerlo, ma al contempo rimane rispettosa nei confronti della tradizione (suo padre), della sua cultura indiana e soprattutto vive perfettamente in sintonia con la natura. Proprio con quest'ultima sembra intessere un dialogo implicito che non necessita di nessun tipo di parola. A guidarla nel suo percorso è Nonna Salice, un gigantesco e antico albero che possiede in sé lo spirito della nonna della giovane; è lei a consigliarla nei momenti difficili, a cullarla con i suoi lunghi rami e a consolarla. E' sempre lei a farle capire i sentimenti che prova nei confronti di John Smith e a mostrarle come entrambi siano solo due facce della stessa medaglia, due culture che necessitano di confrontarsi tra loro.
Quest'ultimo concetto viene mostrato da Pocahontas a John Smith attraverso una tanto semplice quanto profonda canzone, Colors of the wind, con la quale gli svela non solo chi è davvero dei due il selvaggio (inteso nel modo di comportarsi), ma anche e in particolare il senso della vita; ogni cosa in natura, animali, piante, rocce... ha un suo spirito, delle emozioni, che interagiscono con gli altri esseri. Vanno pertanto rispettati. Proprio a causa di tale divergenza di pensiero data dalle rispettive culture che li terrà separati l'amore tra i due non potrà avere un lieto fine, uno dei pochi casi in un film Disney in cui avviene, ma nonostante questo entrambi imparano comunque qualcosa che rimarrà a prescindere dalle strade intraprese. 
Il film è inoltre molto più realista di tanti altri, non nasconde lo scopo colonizzatore e di arricchimento che muove gli inglesi a scapito degli indiani; non cerca di cambiare la realtà dei fatti (come spesso gli sceneggiatori di casa Disney hanno fatto), si limita a mostrare due diversi punti di vista di due differenti culture su uno dei temi più importanti e attuali di sempre: la natura.
                                                                                                                                                    4 


sabato 9 gennaio 2016

Woman in gold: quando l'arte prende vita

Bonjour mes chères! 
Iniziamo il 2016 con qualcosa di particolare; un film legato all'arte, estremamente intimo, ma allo stesso tempo legato al destino di un intero stato. Si tratta della storia vera di una donna che vuole riavere ciò che le spetta di diritto, un'opera sottratta ingiustamente alla sua famiglia molti anni prima e che ora cerca di ritornare dove dovrebbe essere.. Il film è diretto da Simon Curtis ed il titolo è Woman in gold
Maria Altmann è una donna anziana, che da tempo vive negli Stati Uniti dove si è rifatta una vita con quello che le restava della sua famiglia. Sembrerebbe una persona come tante altre, moglie, madre, sorella, ma cinquant'anni prima qualcun'altro la vedeva come una figura "scomoda", da eliminare dalla società e rinchiudere in un campo di concentramento. Maria Altmann è ebrea e gli ebrei residenti in Austria nel periodo del nazismo sono considerati un problema; tutte le loro ricchezze vengono requisite diventando proprietà del Terzo Reich e di chi ne fa parte. Tra tutti questi beni ce n'è anche uno particolarmente caro a Maria, che la rende suo malgrado protagonista di una vicenda di carattere mondiale. Si tratta infatti di un dipinto realizzato dal pittore Gustav Klimt raffigurante la zia della donna, da qui il titolo di "Ritratto di Adele Bloch-Bauer", noto però a tutti con il nome di "La donna in oro". L'opera è rimasta dagli anni '40 in Austria, custodita indebitamente, ma sembra che uno spiraglio si stia aprendo in quanto lo stato europeo ha deciso di inaugurare una politica di restituzione dei beni artistici rubati dai nazisti ai legittimi proprietari. Così Maria intraprende, con l'aiuto di un giovane avvocato, un iter burocratico per far sì che il ritratto torni a lei, ma scopre che nonostante i buoni propositi l'Austria non è disposta a rinunciare al suo quadro più famoso. Quello che succederà dopo creerà un precedente unico nella storia...
Lo scopo primo del regista nel realizzare quest'opera è quello di portare alla luce una vicenda sconosciuta ai più; non tanto mostrare la crudeltà dei nazisti a scapito degli ebrei (di questo si è parlato ampiamente in molti altri film) e neanche di analizzare il vissuto della protagonista prima che arrivasse in America. Si tratta invece di far conoscere la storia di un quadro, una delle opere d'arte più famose al mondo, realizzata da uno degli artisti più noti e di quanto sia stato difficile farlo tornare al suo unico proprietario. Il dipinto è importante soprattutto per il valore affettivo che contiene in sé; un ricordo dei giorni felici (che riemergono qua e là nel film sotto forma di flashback della protagonista) di un'infanzia passata nel calore di una famiglia numerosa che altro non voleva se non poter stare insieme. E' per questo che Maria decide di intraprendere una battaglia che sa benissimo che difficilmente riuscirà a vincere; una battaglia lunga, faticosa, piena di muri da abbattere e che immancabilmente porta alla luce ricordi dolorosi ormai da tempo confinati nella parte più remota della sua memoria. Tuttavia il desiderio di avere di nuovo con sé quell'ultimo legame con la sua famiglia le dà il coraggio di sfidare uno stato intero. 
Maria, figura coraggiosa e risoluta può essere vista come la "copia vivente" della donna del quadro di Klimt; lineamenti dolci, sguardo fiero, incurante di tutto l'oro che la circonda è pronta a lottare con le unghie e con i denti per riavere ciò che è suo di diritto. Se però lo otterrà non ne farà un vanto, ma bensì lo metterà a disposizione della collettività per essere fruito e goduto da tutti.
Due storie un unico destino; la "woman in gold" di Curtis si alterna continuamente tra Adele, la donna del dipinto, e Maria, sua nipote nonché ereditiera dell'opera, mostrando come arte e vita in realtà sono un'unica cosa.
                                                                                                                                     
                                                                                                                                      3 e mezzo