sabato 31 maggio 2014

Il cinema visto nei libri

Oggi miei cari niente recensione di film perché vorrei consigliarvi alcuni libri inerenti alla settima arte che a me sono piaciuti... perché il cinema è fatto sì principalmente della visione, ma a volte occorre anche ricorrere alla carta stampata per cogliere quello che è sfuggito. State tranquilli ve ne mostro solo alcuni, non un'intera libreria!
Il primo in assoluto, potrei definirlo la mia personale Bibbia, è la Pixarpedia ovvero una guida completa per la scoperta del mondo Pixar e di tutto ciò che è nascosto dietro i film. Al suo interno infatti ci sono tutte le opere realizzate dallo staff della casa di produzione complete di titolo, trama e scheda di ogni singolo personaggio più svariate curiosità sul come vengono realizzate. Inoltre vengono svelati anche retroscena particolari e stanze segrete che solo chi ha accesso agli studi può scoprire.
Nessun amante del genere d'animazione può lasciarselo scappare!
Per i romantici invece imperdibile è Non solo baci. I grandi film d'amore che raccoglie al suo interno una carrellata dei più famosi film sentimentali della storia del cinema. Ecco allora dispiegarsi tra le pagine lo scoppio della scintilla in Accadde una notte, o la relazione movimentata in A piedi nudi nel parco, per poi passare al bacio del vero amore in La Bella e la Bestia fino ad arrivare ad Avatar. Senza alcuna distinzione di genere questo bellissimo libro ce li mostra tutti. Ad esso correlato, e di ultima uscita, si può trovare anche Il collezionista di baci realizzato da Giuseppe Tornatore che ha raccolto tutte le locandine dei film romantici a lui più cari e che coprono un arco temporale di quasi un secolo; ecco allora comparire sui manifesti il bacio più intenso, l'ultimo, il più sensuale o il più lungo: quelli insomma che sono rimasti impressi meglio di altri nella memoria degli spettatori di tutti il mondo.
Gli amanti della fotografia invece possono rivivere la settima arte attraverso gli scatti di grandi fotografi come Avedon, Comte, Ritts e tanti altri nel libro Movie: Box. Il grande cinema e la fotografia. Attori colti di sorpresa in un momento di pausa sul set, gli ambienti in cui vengono girati i film, la stessa magia che pervade il cinema vengono racchiusi negli scatti fatti da una macchina fotografica; un controsenso? No, il cinema è o no una successione di immagini? Attraverso una particolare azione come il suonare l'ukulele da parte di Marilyn Monroe, lo sguardo intenso di Clarke Gable che si appresta a schiaffeggiare Vivien Leight o una corsa disperata lungo le strade di Roma che porta Anna Magnani a una tragica fine ritornano alla memoria scene, attimi di film magari visti tanto tempo fa, ma ancora fortemente impressi dentro di noi.
L'ultimo libro che vi propongo è un excursus fatto dalla casa editrice Taschen attraverso il mondo del cinema per selezionare i film migliori di sempre; ecco quindi nascere 100 capolavori del cinema secondo Taschen. Certo non tutti sono d'accordo sfogliando le pagine di questo doppio libro con le scelte e, soprattutto le non scelte, fatte; molti grandi film (ricordo solo che dall'inizio ad oggi le pellicole prodotte si aggirano sulle 30.000!) sono stati scartati a favore di altri, magari meno famosi ma con un certo fascino. Tutti i generi sono presenti per offrire uno sguardo globale su questo fantastico mondo che è al contempo arte della spettacolarizzazione e della realtà. 
Ecco quindi una cinquina di titoli solo per iniziare ad incuriosirvi sul "ciò che c'è dietro" la visione di una singola opera...
Non preoccupatevi: da domani ritornerò a parlare di film con una sorpresa che spero vi possa essere di ulteriore aiuto nella scelta di quello da vedere! Bisuos..

venerdì 30 maggio 2014

La mafia uccide solo d'estate (e nessuno lo dice)

Bonjour à tout le monde! Scusate l'assenza di un paio di giorni, stavo ponderando i post futuri... Per quanto riguarda oggi invece ho deciso di proporvi un film (italiano!), attuale, fatto da un regista giovane, che tratta un tema scottante in particolar modo per l'Italia: la mafia. L'opera in questione è la prima fatta da regista per Pif, ovvero Pierfrancesco Diliberto ex Iena e ideatore del programma Il Testimone, ed è La mafia uccide solo d'estate.
Da palermitano Pif sa meglio di altri cosa vuol dire convivere in una città, in una regione, in cui i clan mafiosi padroneggiano indiscussi su tutto e tutti. Ce lo mostra con uno stile particolare a metà tra il comico e il serio, usando per tutta la durata del film una voce narrante, la sua, per descrivere l'evolversi della storia.
Tutto inizia dal suo concepimento avvenuto, in questo caso grazie, ad un attentato mafioso a un clan nemico nella palazzina in cui si sono appena trasferiti i suoi. Da quel momento la sua vita, vista attraverso gli occhi dell'alter ego Arturo, si incrocerà con quella della mafia; nello specifico con quella del boss dei boss Totò Riina. Arturo cresce in una famiglia che, come il resto degli abitanti di Palermo e non solo, nega la presenza di cosche mafiose e anzi se la prende con chi invece lotta ogni giorno per cercare di preservare un ideale di giustizia; lui solo cerca di capire come funzionano realmente le cose incontrando personaggi che hanno fatto la storia italiana sacrificandosi come Giuliano, Dalla Chiesa, Chinnici... rifacendosi a colui che crede essere il modello da seguire Giulio Andreotti. Crescendo, di pari passo cresce anche la crudezza degli attentati mafiosi, prende sempre più coscienza di ciò che gli sta intorno: uno ad uno giudici, commissari, generali cadono sotto le bombe e i colpi di pistola mentre la popolazione guarda e non fa nulla, come non fa nulla (neanche andare ai funerali) il premier Andreotti. E' solo con le morti di Borsellino e Falcone che qualcosa inizia a smuoversi; i giovani scendono in piazza per manifestare apertamente contro la mafia, sono stanchi di sentire solo notizie di morte ai telegiornali, vogliono dare alla Sicilia un volto nuovo.
Dal film emerge chiaramente la necessità di mostrare apertamente quello che per tanti anni è stato celato dietro un velo di omertà, di mostrare volti con un nome e un cognome attraverso immagini e video di repertorio per fare in modo, o almeno tentare di aprire uno squarcio, che ciò non accada mai più. Nel tentativo di ricordare alla popolazione il sacrificio fatto da pochi coraggiosi la città di Palermo è costellata di targhe commemorative che troppo spesso vengono deturpate o addirittura fungono da cassonetto dei rifiuti. Nel finale del film Pif/Arturo porta il proprio figlio a vedere una per una queste lapidi, raccontandone la storia che c'è dietro in modo che cresca sapendo la verità, quella vera, completa senza omissioni.
Sulla parete di casa ormai non c'è più il poster di un solo uomo, Andreotti, ricordo lontano ma indelebile di un premier passivo e indifferente, ma quello di molti eroi che non si sono mai considerati tali perché, dicevano, "faccio solo il mio lavoro". 
Che il tutto venga raccontato in chiave comica, dove al centro c'è l'amore di Arturo per la sua vicina Flora, è un modo (criticato da molti) per stemperare, per non realizzare un'opera che sia simile a Gomorra, per mostrare la crudeltà della violenza senza effettivamente mostrarla ma non per questo renderla meno evidente. Fare un film che tratta un tema così "delicato" non è facile, ma Pif ci è riuscito molto bene, portando una ventata di aria nuova nel cinema italiano che, proprio grazie ai giovani registi, sta riprendendo la forza mostrata solo dal Neorealismo. Spero non sia la sua unica opera!

martedì 27 maggio 2014

Animazione parte 3

Eccoci all'ultimo post dedicato all'animazione! Per offrirvi una prospettiva a tuttotondo mi sembra giusto parlarvi non solo di quella americana, più conosciuta per forza di cose, ma anche di quella europea e giapponese che stanno prendendo sempre più piede sul mercato mondiale. Non che prima queste ultime non fossero importanti o meno particolareggiate dell'altra solo erano meno conosciute per le leggi di commercializzazione in cui prevale il più forte. Ad ogni modo procediamo...
Animazione europea: non occorre dire che essa esiste fin dalla nascita della settima arte soprattutto grazie alle invenzioni di George Méliès, per quanto riguarda la Francia, e Giovanni Pastrone per l'Italia. Il vero sviluppo in entrambi i casi si ha però attorno agli anni '90 quando da realtà pressoché nazionali queste produzioni acquisiscono un riconoscimento anche a livello internazionale. 
Per la Francia grandi ideatori sono certamente Sylvain Chomet e Michel Ocelot. Del primo si ricorda L'Illusionista del 2010, film particolare perché prevalentemente muto. Accolto con recensioni molto positive e candidato ai più importanti premi il film di Chomet mostra l'incessante scorrere del tempo che non si ferma davanti niente e nessuno sottolineando l'ineluttabilità dell'esistenza umana. Ocelot è invece famoso per i lungometraggi che hanno come protagonista il piccolo Kirikù come Kirikù e la strega Karabà vincitore a Cannes nel 1998.
Ultimissimo esempio della crescente popolarità dell'animazione francese è invece la produzione franco-belga dello scorso anno, candidata all'ultimo Oscar Ernest&Celestine basato su un racconto per bambini. In questo tipo di film quello che prevale è la delicatezza dei disegni, delle tinte pastello volte a sottolineare un gusto che si rifà alla tradizione affidandosi alla tecnologia solo per la parte di montaggio.

Per quanto riguarda l'Italia il più famoso esempio di animazione attenta e ben strutturata è quello di Enzo d'Alò con il suo La gabbianella e il gatto del 1998. Tratto da un romanzo di Sepulveda mostra il rapporto di amicizia che si instaura tra due animali che per loro natura non sono affini, ma per istinto lo diventano. Nel nostro Paese, rispetto alla Francia, la produzione di film animati non ha ancora raggiunto il successo sperato, ma sta facendo notevoli progressi sia per quanto riguarda i contenuti che per lo stile. 

Altra grande potenza nel campo dell'animazione è il Giappone con un esempio su tutti: lo Studio Ghibli di Miyazaki e Takahata. Entrambi i registi, ma soprattutto il primo, convergono nelle loro opere gli stilemi tipici della cultura e della religione tradizionale; ecco quindi che shintoismo e buddismo si manifestano come precetto da seguire nella vita di tutti i giorni. Il rispetto della natura è condizione imprescindibile per vivere armoniosamente pena conseguenza disastrose; lo mostra chiaramente Miyazaki in tutti i suoi film, particolarmente in quello che considero il mio preferito Nausicaa della valle del vento del 1984. Differentemente dai suoi colleghi americani il regista preferisce servirsi di un'animazione fatta interamente a mano, disegnando uno per uno tutti gli elementi che compongono le sue opere mostrando quindi un attaccamento al lavoro manuale piuttosto che affidarsi alla tecnologia (solo in un caso ha usato la computer graphic). 

Suggeritomi invece da un'amica è quest'opera, tratta da un manga come la maggior parte degli anime giapponesi, che mescola musica e natura attraverso l'amicizia di due bambini. Per ulteriori approfondimenti in merito a questo film vi rimando al seguente link:
Il viaggio, generico sennò il prossimo anno sarei ancora qui a parlarvene, attraverso il complesso e vario mondo dell'animazione termina qui; spero vi porti a scoprire film e registi mai presi in considerazione per comparare stili e tematiche diverse!

domenica 25 maggio 2014

Animazione parte 2

Ieri vi ho introdotto l'animazione come genere cinematografico sottovalutato dalla maggior parte degli spettatori adulti e vi ho mostrato come esso si sia prevalentemente sviluppato dagli anni '30-'40 in poi con la tecnica del passo uno. Oggi continuerò parlandovi della sua evoluzione grazie alla tecnologia e all'uso del computer.
Prima però di passare all'animazione digitale voglio soffermarmi un momento su di un tipo particolare di animazione: quella con la plastilina. Essa infatti è tuttora utilizzata con risultati più che positivi che permette di ottenere personaggi semplicemente modellando dei blocchi di questo materiale. Naturalmente, come il passo uno, anche tale sistema richiede lunghe ore di preparazione e spesso, per alleggerire il carico di lavoro, vengono utilizzate parti in silicone prodotte in serie perché più leggere e precise nei dettagli. Un esempio, forse il più famoso, di film realizzato con la plastilina è quello di Peter Lord Galline in fuga.

L'animazione al computer... Essa inizia a diffondersi già negli anni '60 con l'avvento dei primi apparecchi, migliorando di pari passo con lo sviluppo tecnologico e con l'introduzione della grafica tridimensionale. Grazie al computer è quindi possibile creare vari tipi di animazione: in 2D le immagini sono modificate usando una grafica vettoriale che integra tutte le tecniche manuali sviluppate fino ad ora; oppure è possibile realizzare un'animazione 3D in cui il corpo solido nasce come modello digitale sotto forma di linee basilari per poi venire manipolato da un animatore.
Molto usata oggi è anche la motion capture non solo per film d'animazione ma anche per dare vita a effetti speciali particolarmente complessi presenti di solito in film fantasy o di avventura. Questa tecnica si avvale della registrazione del movimento del corpo umano grazie a dei marcatori posizionati sul corpo dell'attore. 
Una delle più famose case di produzione che usa la CGI (computer generated imagery) è senza dubbio la Pixar appartenente alla Disney. Essa è la prima ad aver realizzato un lungometraggio totalmente fatto con la computer graphic: Toy story nel 1995 di John Lasseter. Da quel momento in poi non si è più fermata e continua a creare film sempre più precisi e complessi nell'uso delle potenzialità digitali conquistando, ovviamente, premi su premi.

Tipologia particolare è invece quella della tecnica mista che combina cioè in un solo film attori in carne ed ossa con personaggi d'animazione. Esempio più noto è certamente Chi ha incastrato Roger Rabbit? di Robert Zemeckis del 1988. Al suo interno sono presenti tutti i maggiori personaggi animati delle varie case come Topolino e Paperino, Bug Bunny e Daffy Duck, Betty Boop, Picchiarello e tanti altri. Il lavoro, soprattutto durante le riprese risultò complesso, ma il successo fu garantito!

Ora non rimane che parlare dell'animazione giapponese ed europea per avere un confronto con questa, ma sarà argomento del prossimo post!

sabato 24 maggio 2014

Animazione parte 1

Oggi ho deciso parlarvi dell'animazione e non perché sia il genere che amo di più, ma perché troppo spesso viene sottovalutata. In questa prima parte mi concentrerò sull'animazione americana dagli anni '30 fino all'uso della tecnologia.
L'animazione viene infatti considerata come un genere prettamente indicato alla visione da parte di soli bambini, ma ciò non è vero perché esiste tutta una vasta gamma di film d'animazione unicamente dedicata alla visione adulta; oppure molto spesso una stessa opera può essere letta in una chiave se a vederla è un bimbo e in un'altra, più complessa, se è un adulto a fruirla. Non bisogna quindi sottovalutare tale genere perché offre vari spunti interpretativi che raramente gli altri stili hanno.
Naturalmente, come è successo per la commedia, ci sono vari modi di realizzare un film d'animazione, varie tecniche che si sono evolute pari pari con la tecnologia permettendo agli animatori una sempre maggior libertà creativa e facilità di realizzazione.
La prima tecnica con cui i cartoons (non cartoni! fate attenzione, dite piuttosto cartoni animati) sono stati realizzati è quella del passo uno o stop motion. In che cosa consiste? E' molto semplice: come dice il termine stesso ad ogni movimento corrisponde un disegno, quindi se si vuole far muovere un personaggio o un oggetto da un posto all'altro bisogna disegnarlo tante volte quanti sono i movimenti che esso fa per raggiungere la meta. Ne risulta che per realizzare un lungometraggio occorreranno centinaia di migliaia di disegni con un lavoro immane da parte degli animatori.
Il primo film creato con questa tecnica è, tutti lo conoscete, Biancaneve e i sette nani del 1937 creato e prodotto da Walt Disney. Fino a quel momento erano stati creati solo dei cortometraggi molto più stilizzati; in questo caso invece i personaggi assumono sia forma umana che animale e le loro caratteristiche sono ben delineate.

Tenete presente però che l'animazione è sempre esistita, fin dalla nascita del cinema, solo in toni molto stilizzati; è appunto dagli anni '40 che essa inizia ad avere una maggiore attenzione da parte degli studi di produzione che decidono di investire nel genere (con enorme successo direi). 
Accanto alla Disney infatti ben presto anche la Warner Bros e la MGM iniziano a sfornare prodotti principalmente interessati al pubblico dei più piccoli ma che neanche i grandi disdegnano; ricordiamo Bugs Bunny e Daffy Duck, Tom e Jerry e I Flinstones. Nonostante siano passati ormai più di sessantanni dalla loro creazione essi sono tuttora presenti sugli schermi di cinema e televisione pronti per incantare.
Il primo film d'animazione però che riscuote un notevole successo perché è il primo ad essere candidato all'Oscar nella categoria Miglior film è La Bella e la Bestia del 1991 sempre della Disney. Il lavoro fatto dal team di animatori, durato svariati mesi (giorno e notte) non ha paragoni e viene considerato come una pietra miliare di questo genere. 

Ad oggi, con la progressiva evoluzione tecnologica, nuove risorse sono state sviluppate e anche il lavoro di produzione di cartoons è diventato in qualche modo più "semplice".  Ma questo è argomento del prossimo post! 


martedì 20 maggio 2014

La giusta distanza: un labile confine

Carissimi oggi torno a parlare di film e, udite udite, di cinema italiano! Già proprio così, ieri ho visto un film che mi è davvero piaciuto e che mostra ancora una volta come il razzismo e il pregiudizio siano tuttora presenti all'interno della nostra società contemporanea. L'opera di cui ho scelto di parlarvi è stata diretta da Carlo Mazzacurati: La giusta distanza.
Mara si trasferisce per un breve tempo, prima di andare in Brasile, in uno sperduto paesino della campagna veneta per fare da insegnante ai bimbi della zona. Tutto è diverso rispetto alla sua movimentata vita cittadina: gli abitanti si conoscono tutti tra di loro, il concetto di privacy non esiste e se si fa qualcosa considerato al di fuori degli schemi in un attimo tutto il paese lo viene a sapere. Qui Mara fa la conoscenza di Hassan, meccanico tunisino ormai italianizzato e ben amalgamato tanto da parlare anche il dialetto veneto, e di Giovanni, diciottenne con ambizioni giornalistiche. In breve tempo, superati gli scontri iniziali, nasce qualcosa tra Mara e Hassan che, se è solo attrazione fisica per lei, è quasi amore per lui. Fin qui tutto normale, il giorno della partenza si avvicina ed è il momento degli addii ma Mara non partirà mai per il Brazile; il giorno dopo aver salutato il meccanico viene trovata morta nel fiume. Tutti i sospetti portano nella direzione di Hassan, l'ultimo ad averla vista viva e, motivo quasi fondamentale, straniero; dopo un processo sommario viene incarcerato. Poco dopo si suicida in cella lasciando solo un biglietto in cui si professa innocente. Sarà Giovanni a portare a galla la verità, anche se un po' in ritardo, mettendo a posto tutti i pezzi del puzzle.
Mazzacurati mostra come sia ancora fortemente presente, nonostante il processo evolutivo e gli scambi culturali, il razzismo e il sospetto nei confronti di tutto ciò che viene visto come "diverso". Questo termine fa infatti paura, cela al suo interno qualcosa di oscuro e non riconoscibile che genera automaticamente la diffidenza, il puntare il dito per precauzione perché "è sempre meglio accusare, a volte ingiustamente, qualcuno di fuori che uno del posto". Il concetto è maggiormente riscontrabile nei piccoli centri abitati, isolati dalle grandi aree urbane dove tutti sanno la storia di tutti; ciò porta immancabilmente a nascondersi in casa e spiare il vicino da dietro la tenda della finestra. 
Nello specifico del film a fare le spese di questo odio/stupidità è Hassan, completamente innocente, ma creduto a priori colpevole persino dal suo stesso legale che decide di non sprecare il suo tempo indagando sul caso. Tocca ad un ragazzino poco più che maggiorenne il compito di far luce sulla verità, ripristinando quella "giusta distanza" che porta a vedere le cose obiettivamente senza farsi coinvolgere emotivamente dagli eventi. 
La giusta distanza è quindi un confine: un confine che gli abitanti del paesino hanno assunto a misura per tenere lontano gli estranei, un confine che separa sentimento e ragione ed un confine tra il fare la cosa giusta e non farla per vigliaccheria. In tutti e tre i casi esso è molto labile ed è facile passare da un lato all'altro senza accorgersene ma dando origine a conseguenze a volte drammatiche.
La giusta distanza è uno dei pochi film del cinema italiano contemporaneo che mette a nudo uno dei problemi della nostra società, ripercorrendo le scelte stilistiche fatte negli anni '60 dalla commedia all'italiana, senza però la vena comica.

lunedì 19 maggio 2014

Tutti i lati della commedia

Oggi, mes chers, non parlerò né di un regista in particolare né di un film, bensì di un intero genere. Eh sì ogni tanto ci vuole anche la cosiddetta "giornata istruttiva"! 
Il genere di cui ho deciso di trattare oggi è la commedia, un macrogenere che raccoglie al suo interno svariati modi di intendere la commedia e che si sono diversificati nel corso degli anni a seconda di come si è evoluta la settima arte stessa. 
Partiamo dal primo tipo: la slapstick comedy.
Questo è il tipo con cui nasce la commedia stessa che, inizialmente (anni '10-'20), è più di stampo comico caratterizzata da una comicità tuttalpiù fisica, elementare, dove la caduta e le torte in faccia sono la norma. Questa tipologia necessita per forza di cose di riprese fatte in esterni proprio perché l'elemento più importante, legato alla corsa, è l'inseguimento. I personaggi stessi diventano delle maschere, senza una forte connotazione psicologica; quello che conta è solo la fisicità che porta alla caduta. In questo senso il massimo esponente di film slapstick è Arbuckle che ben interpreta il ruolo grazie anche alla sua notevole stazza.

Una prima rivoluzione del genere, ancora slapstick però, avviene con Keaton e Chaplin i quali danno vita a personaggi più complessi; non più solo delle maschere, ma anche l'umanità inizia a mostrarsi, soprattutto attraverso il dolore. Nonostante tutto i protagonisti di questi film, sia che si tratti di un regista che dell'altro, non riescono ancora ad integrarsi del tutto nella società, rimangono degli emarginati. Chaplin in questo senso fa un passo in più rispetto a Keaton (che ricordiamolo non riesce a superare l'avvento del sonoro) dando una maggiore connotazione al suo carattere: lo rende sì un emarginato, ma per sua scelta.
Con gli anni '30 c'è invece la vera "divisione dei generi" che investe in pieno la commedia creando una maggior suddivisione al suo interno e modificando i canoni della slapstick anche per l'avvento del sonoro; i personaggi si integrano con la società e quello che prevale è l'elemento romantico. Tre sono i tipi di commedia che si sviluppano, ognuno con delle proprie caratteristiche... vediamoli.
1. screwball comedy: è sostanzialmente fisica con personaggi folli, situazioni portate al limite, di andamento estremamente veloce e il caos è predominante. In questo caso gli effetti catastrofici sono calcolati e possono essere ottenuti solo grazie all'uso del sonoro; soprattutto per quel che riguarda i dialoghi che spesso si sovrappongono tra di loro. Il caos invece non viene considerato come un disvalore, anzi viene quasi elogiato perché porta all'amore e all'incontro con l'altro; da non tralasciare il fatto che la donna è sempre più intelligente dell'uomo ma non può farne a meno. Spesso infatti film così vengono chiamati "commedie del ri-matrimonio".
Il maggiore esponente di questo filone è certamente Howard Hawks con il film Susanna.

2. sofisticated comedy: a questo tipo di commedie corrisponde principalmente la figura di Ernest Lubitsch con il suo famoso "Lubitsch's touch" sinonimo di ambiguità in relazione alla questione del "to play", ovvero del recitare ma anche del fingere. Si basa su un cinema del non detto e del non visto, l'apparenza è un velo che nasconde qualcos'altro; da non dimenticare infatti uno dei suoi capolavori, Vogliamo vivere. Il tema della finzione quindi è dominante, il falso può intervenire sulla realtà modificandola e portando una situazione tragica al lieto fine o quasi. Di conseguenza il rapporto tra realtà e finzione è particolarmente complesso perché i due livelli si intersecano continuamente tra loro.

3. social comedy: tale tipo di commedia è la quintessenza stessa del New Deal manifestata attraverso i film di Frank Capra. Il regista è in grado di creare veri e propri mondi che, seppur alternativi, suscitano consapevolezza e senso di appartenenza nel popolo americano. Un chiaro esempio ne è Arriva John Doe

Ultima tipologia di commedia, un merito al cinema nostrano devo pur riconoscerglielo, è la commedia all'italiana che si sviluppa e muore negli anni '60. Essa appare come lo specchio deformante della società italiana del periodo ed affronta i temi tipici di quel periodo: disoccupazione, miseria, morte, la convivenza di antico e moderno. Nasce ufficialmente nel '58 con Mario Monicelli e il suo I soliti ignoti che rivisita la storia dal punto di vista dei personaggi non protagonisti trattando temi fino ad allora tabù, mostrando ovvero tutti i lati negativi dell'Italia e degli italiani.

Per quanto riguarda il presente invece non esiste un vero ti po di commedia a causa di una mescolanza dei generi; spesso infatti si parla di un film descrivendolo come una commedia tragica o, al contrario, un drammatico-comico. E' inutile quindi provare a stilarne le caratteristiche...
Lascio a voi decidere qual è il tipo di commedia che più vi piace!

sabato 17 maggio 2014

M - il Mostro di Lang

Oggi è la giornata dedicata ai salti nel passato e ho scelto per questa occasione uno dei maggiori registi di tutta la storia del cinema: Fritz Lang.
Lang è forse il maggior regista del cinema tedesco, soprattutto nel fortunato periodo dell'espressionismo, considerato universalmente una pietra miliare della settima arte. Con l'avvento della Repubblica di Weimar e l'offerta di Hitler di lavorare per il regime Lang decide di trasferirsi negli Stati Uniti a Hollywood dove la sua carriera continua più attiva che mai.
Il cinema è da sempre presente nella vita del regista, prima di diventare il suo vero e proprio lavoro si guadagna da vivere disegnando cartoline e vignette in quel di Montmartre; è, sembra quasi assurdo, grazie alla Prima Guerra Mondiale (che lo vede congedato definitivamente per ferite gravi) che inizia a lavorare attivamente scrivendo sceneggiature cinematografiche. A Berlino, capitale della settima arte, che avviene la sua consacrazione definitiva con il suo primo film, uscito nel 1919, Halbblut.
Senza elencare tutti i suoi successi vi parlerò di un film in particolare che non è Metropolis, conosciuto da tutti e riconosciuto anche Patrimonio dell'Umanità dall'Unesco, ma bensì di M. il mostro di Düsseldorf.
La storia è quella di un'intera città che vive nel terrore per la continua scomparsa di bambine ad opera di un vero e proprio serial killer che nessuno è mai riuscito a vedere. Non ci sono indizi per identificarlo perché si muove sempre nell'oscurità e la polizia, costantemente sotto pressione, brancola nel più totale buio. L'ultimo omicidio però, quello di una bimba che gioca tranquillamente a palla, smuove qualcosa e tutti i cittadini si mobilitano affiancando le forze dell'ordine come meglio possono, creando addirittura un sistema di ronde tra le bande criminali. Attraverso un astuto espediente il Mostro viene finalmente catturato e sottoposto a processo proprio dagli stessi criminali che lo condannano a morte; solo l'arrivo della polizia riesce a fermare il linciaggio e assicurare l'omicida alla giustizia.
La forza di questo film risiede nell'uso del fuoricampo; è grazie ad esso che il regista crea il senso di terrore e paura che attanaglia sia i protagonisti della vicenda sia il pubblico. Il fuoricampo, utilizzato grandemente anche da Hitchcock per creare suspense, rappresenta infatti quella parte di spazio che non può essere ripreso dalla macchina ma da cui tuttavia può arrivare il suono. Non a caso nel film vediamo i personaggi che guardano verso il fuoricampo, dove ipotizziamo sono presenti altri personaggi perché ci giungono in ritorno le loro voci; lo stesso vale per M: sappiamo che è sempre presente perché ne udiamo la musica che fischietta mentre si appresta a commettere un omicidio e, solo in un secondo momento, ne vediamo comparire la sua ombra. Grazie a questo sistema il colpevole c'è in quasi ogni attimo della storia ma non si vede mai (almeno non quando si trasforma nel mostro pronto a colpire).
Altro elemento da non tralasciare e sintomatico in quanto il film è il primo sonoro fatto dal regista è l'uso stesso che viene fatto di quest'ultimo. Il mostro viene riconosciuto da un cieco proprio perché sente il ritornello che canta sempre prima di uccidere; solo e soltanto grazie ad una serie di note si riesce a catturare il colpevole introvabile. Il sonoro poi va associato al fuoricampo per le ragioni dette prima; non solo la musica ma anche le parole giocano un ruolo importante perché danno il senso della presenza di qualcuno, se c'è risposta è un segno positivo, se quello che ritorna è solo silenzio significa che qualcosa è successo. 
Lang è da sempre attento alla simbologia nei suoi film e qui, ancora una volta, ce ne dà prova: il tribunale costituito da criminali che si ergono a giudici di un altro criminale ha quasi dell'assurdo, ma mostra quanto il regista consideri relativa la giustizia.
Il clima sociale tedesco del tempo si manifesta espressamente in quest'opera, lo stesso clima che farà decidere a Fritz di emigrare in America per tornare solo molti anni dopo. L'Europa perde così uno dei suoi massimi registi.


giovedì 15 maggio 2014

Quel gallo di Hellman

Bonjour mes chers! Mi è stato detto da fonti affidabili che non scrivo recensioni cattive.. è così perché quando vedo un film che non mi piace (e intendo che mi fa proprio schifo!) reputo quasi inutile annoiarvi con una serie di epiteti poco gentili sul suddetto film e relativo regista.
Però ho deciso di provare a fare qualcosa di simile scegliendo cioè un film che mi ha davvero disgustato, fatto da un regista che tuttavia è considerato, se non un genio, di notevole rilevanza, almeno nell'ambito dei B-movies americani: Monte Hellman e il suo Cockfighter.
Il film racconta la storia di Frank ossessionato dai combattimenti tra galli tanto da arrivare a decidere di non parlare più fino a quando non avrà vinto il titolo di Cockfighter of the Year per tanti anni cercato e mai ottenuto. E lo fa davvero; si isola in un mondo tutto suo basato solo e unicamente sull'addestramento del suo miglior gallo non curandosi più dei suoi amici, della sua fidanzata che lo vorrebbe dedito al lavoro e a lei e dei suoi averi. Vende tutto pur di gareggiare nel torneo annuale di combattimenti tra galli. Alla fine vincerà tornando a parlare, ma a che prezzo?
Alla sua uscita nel 1974 il film fu aspramente contestato negli Stati Uniti per tutte le scene contenenti scontri tra galli e per i tanti cadaveri (sempre di galli) mostrati. Addirittura è tuttora proibito nel Regno Unito perché con concorde con i canoni previsti dal Cinematograph Films (Animals) Act e non è neanche mai stato proiettato nelle sale italiane.
Tralasciando un momento questa polemica si nota come Hellman ha scelto di mostrare un tema antropologicamente molto indagato da studiosi come Geertz che hanno analizzato il fenomeno dei combattimenti tra galli molto praticati soprattutto a Bali. Questo rituale ha radici molto più profonde del solo scontro mortale tra due animali: mostra la virilità e la potenza maschile di fronte ad un suo simile; con la vittoria del proprio animale, e la conseguente morte dell'altro, il proprietario ha il diritto di essere acclamato come superiore al suo avversario, reclamando anche una parte della somma vinta tramite le scommesse. Ancora una volta si mostra lo spirito guerrafondaio e assassino per diletto che solo l'uomo ha in sé.
Se contenutisticamente il film non eccelle per trama e sviluppi anche lo stile non è da meno; piatto, privo di qualsiasi tipo di emozione e sentimentalismo se non quello che lo spettatore cerca da solo di mostrare per tutta quella moltitudine di pennuti inutilmente sacrificati.  Lo stesso protagonista nel suo mutismo non dà segni di avere un cuore. Che sia una scelta voluta o no dal regista o semplicemente un'opera riuscita male il film risulta essere monocorde.
Questo spirito per così dire "apatico", del non sapere cosa fare o che strada scegliere si riscontra anche negli altri sui film, partendo da quello che è considerato come il suo capolavoro La sparatoria, western atipico per gli stilemi del genere, per proseguire con Le colline blu, Strada a doppia corsia e così via. Unico elemento di collegamento tra tutti è il protagonista, l'attore feticcio di Hellman Warren Oates che ben interpreta questo senso di malessere.
Dopo la visione di uno dei suoi film non si è mai del tutto soddisfatti di quello che rimane; lasciano poco all'immaginazione e anche analizzandoli nello specifico se ne ricava ben poco.
Forse a qualcuno di voi piaceranno, a me di sicuro no!

mercoledì 14 maggio 2014

Fantastic Mr. Gustave H.

Ecco un altro regista che più guardo e più mi piace: Wes Anderson.
Osservando i suoi film mi sono accorta che seguono tutti una linea ben precisa, con un tema centrale, mantenendo sempre uno stile leggero e ironico. Anche nel suo ultimo lavoro Grand Budapest Hotel.
Monsieur Gustave H. è il più rinomato portiere d'albergo di inizio Novecento, amico e protettore dei suoi collaboratori e molto intimo delle sue attempate clienti che non mancano mai di ringraziarlo con regali più o meno cospicui. Tutto sembra andare a gonfie vele fino a quando la sua più affezionata cliente, Madame D., viene trovata morta nella sua residenza. In eredità la vegliarda ha lasciato al portiere un pregiato quadro, Ragazzo con mela, che però non vuole essere ceduto dagli eredi che credono il povero M. Gustave l'omicida (anche se in realtà sanno benissimo chi è il vero assassino). Da questo momento inizia la vera epopea del protagonista costretto a fuggire, aiutato dal fedele giovane lobby boy Zero, per poi essere incarcerato, evadere, fuggire di nuovo fino alla completa scoperta della verità e del testamento nascosto. In tutto ciò non manca neanche lo scoppio della guerra che debilita il settore vacanziero e tutte lo strutture che lo comprendono, incluso il famoso Grand Budapest Hotel casa di Monsiuer Gustave.
Ancora una volta ecco comparire il tema portante della poetica andersiana: la famiglia intesa non solo nel senso canonico del termine ma anche come insieme di persone diverse tra loro ma in stretta interdipendenza una dall'altra. Come ne I Tennenbaum, Le avventure acquatiche di Steve ZissouUn treno per Darjeeling o Fantastic Mr. Fox anche qui tutta la storia ruota attorno ad un nucleo di persone in cerca della propria stabilità e identità. Capofamiglia in questo caso è Monsieur Gustave H. che, padre ipotetico di tutti i dipendenti dell'hotel, non si tira mai indietro quando si tratta di difendere, salvare o aiutare uno di loro, in particolare il giovane Zero, lobby boy immigrato e un po' sfigato che si rivela essere il suo più valido assistente. Neanche quando la fortuna gli si ritorce contro viene abbandonato dalla sua curiosa famiglia allargata che anzi fa di tutto per aiutarlo. 
Durante tutta questa travagliata avventura che ha in sé del tragico non manca mai lo stile ironico, leggero e spiritoso che è tipico di Anderson; stile volto a sdrammatizzare la situazione che si tratti della fuga di Gustave H., del viaggio alla riscoperta di sé in mare aperto di Steve Zissou, del percorso evolutivo di Mr. Tennenbaum o della presa di coscienza di Mr. Fox. 
Raramente inoltre si vede un personaggio, che sia o meno il protagonista, da solo; esso è sempre contornato da caratteri secondari, atti ancora una volta a ricordare lo spirito di gruppo, di cameratismo che caratterizza i film del regista. Ad incrementare questo senso di collettività è soprattutto l'uso che viene fatto della colonna sonora, garantendo quel tocco di poesia in più.
Anche se in apparenza i suoi personaggi appaiono come dei disadattati, non più al passo coi tempi e quindi prossimi all'oblio in realtà rivelano avere ancora un asso da giocare, una forza di spirito che li porta a prendersi una rivincita su tutti quelli che li danno ormai per spacciati; tale carta nascosta non è per forza di cose una dimostrazione del loro essere invincibili, anzi è forse quel guardarsi allo specchio che rivela la loro essenza più profonda generando un esame di coscienza volto al miglioramento personale. 
C'è tanto da imparare, se si vuole leggere sotto la superficie, dai film di Anderson; basta solo averne il coraggio.

domenica 11 maggio 2014

Aronofsky come moderno Noah

Il film sul menù di oggi è nientemeno che Noah di Darren Aronofsky. Opera che fin da prima della sua uscita è nel mirino di contestazioni e critiche per le scelte contenutistiche e stilistiche adottate dal regista non va invece sottovalutato... 
La storia, chiunque può immaginarlo, è quella del biblico patriarca Noè chiamato a salvare il creato dal Diluvio universale attraverso la costruzione di un'enorme Arca; nella Bibbia si ritrova il racconto nell'Antico Testamento nel libro della Genesi. 
Noè con la sua famiglia vive il pace con il mondo, prendendo solo ciò che è necessario al loro sostentamento; non uccide, non caccia, non sfrutta. Tuttavia sulla Terra c'è anche il suo equivalente malvagio, quelli uomini, discendenti di Caino, che hanno adottato la violenza come mantra da seguire e che quindi non hanno scrupoli nell'uccidere, nel cacciare e nello sfruttare tutte le risorse del suolo fino al loro completo esaurimento. Così facendo si spostando di luogo in luogo lasciando dopo il loro passaggio solo cenere e rovine. Ma il Creatore non può tollerare un tale scempio e parla nel sonno a Noè affidandogli un compito: costruire una gigantesca Arca che racchiuda una coppia di tutte le specie animali per portarle, in salvo dall'imminente Diluvio, nel nuovo paradiso terrestre. Accettato il disegno divino il patriarca si mette subito all'opera e costruisce con la sua famiglia l'Arca nella quale man mano iniziano a stiparsi gli animali; però anche i discendenti di Caino vogliono salvarsi e cercano di attaccare Noè per impossessarsi dell'Arca e del suo contenuto. 
Ma tutto va come deve andare: il Diluvio universale adempie al suo scopo e Noè porta a termine il suo compito, non privo certo di difficoltà e scelte difficili da affrontare.
Aronofsky ci mostra con questo film le paure e le titubanze di un uomo che non sempre capisce fino in fondo il disegno progettato per lui dal Creatore, ma che nonostante tutto si affida ciecamente al suo volere sapendolo giusto anche quando sembra chiedergli di fare scelte contro ogni tipo di pietà. Eccolo allora pronto a sacrificare al vita, appena sbocciata, delle sue nipoti pur di garantire l'estinzione della specie umana in favore di un creato di nuovo puro (e quindi senza la presenza dell'uomo); ma, come sempre, lo spirito di sacrificio viene premiato e la vita risparmiata. Noè, sembra dirci il regista, non è che un uomo come tanti altri, un uomo fatto di carne in cui convivono desideri e angosce, tentazioni e spirito di obbedienza; ma è un grande uomo capace di elevarsi sopra il male in favore di un credo che non segue nulla di ciò che è materiale per cercare di garantire un futuro migliore al mondo.
Grande ruolo in tutto questo hanno anche gli effetti speciali e le location (prevalentemente Islanda) che, come in The tree of life catapultano lo spettatore in un viaggio attraverso i 6 giorni in cui fu creato il mondo, passando dalla luce, al mare, agli animali fino al peccato mortale simboleggiato da una mela che pulsa come fosse un cuore umano ricordando allo stesso tempo come sia, ancora una volta, colpa dell'uomo/donna debole di spirito la caduta dall'alto verso il basso.
A mio avviso il pregio del film risiede proprio in questo: mostrare la natura fallace dell'essere umano per farlo riflettere, se possibile, sul suo modo di agire; da notare infatti la sequenza che mostra la crudeltà umana durante i secoli attraverso la sagoma di un uomo in controluce che cambia seguendo l'evoluzione (ad un tratto si noto un soldato con tanto di fucile). 
Non bisogna guardare il film basandosi sulla storia contenuta nella Genesi perché non è un film didascalico, non vuole esserlo e non avrebbe senso che lo fosse. Bisogna guardare tra le righe scritte da Aronofsky, interpretarle e alla fine riflettere su ciò che si è visto. Siamo noi esseri umani cambiati oppure quello che ha fatto Noè non è servito?

giovedì 8 maggio 2014

Polanski in pelliccia

Bonjour à tout le monde! Ci ho pensato un po' prima di decidere di cosa parlare oggi e la scelta alla fine è ricaduta su un regista, e un film, che mi piace molto, anche se spesso al centro delle polemiche: Roman Polanski e il suo Venere in pelliccia.
Il film si ispira all'omonimo romanzo ottocentesco di Leopold von Sacher-Masoch e mostra il rapporto che si instaura, nell'arco di poche ore, tra un regista teatrale e l'aspirante attrice al ruolo di protagonista. I due sembrano in apparenza incompatibili sotto ogni punto di vista: lei rozza, volgare quasi incolta, lui uomo di spettacolo con saldi principi e una compagna che lo aspetta a casa. Ma appena lei, Vanda, inizia a recitare si trasforma, rivelando essere la donna più adatta per la parte; non solo conosce a memoria ogni singola riga ma sa leggere tra le righe cogliendo qualsiasi sfumatura presente nel romanzo. Lo stesso regista, Thomas, ne rimane affascinato tanto da farsi intrigare nel gioco di seduzione da lui stesso messo in scena. Vanda riesce così bene ad agire nel profondo della psiche di Thomas da invertire i ruoli lasciandolo, alla fine, legato e ammutolito ad un cactus rimasto sul palco da un precedente allestimento.
L'opera inizia e finisce nello stesso modo ma al contrario: la macchina da presa avanza, sotto la pioggia, lungo il viale per poi entrare in teatro. Allo stesso modo si ritira, uscendo dal teatro e indietreggiando nel boulevard sempre sotto la pioggia che non accenna a smettere di cadere. E' un cerchio perfetto che contiene la storia di due vite racchiuse in poche ore. 
Anche qui, come nel precedente Carnage, tutta l'azione si svolge in uno spazio chiuso, quasi claustrofobico ma tuttavia incapace di contenere lo spirito dei due protagonisti che si muove a cavallo di due epoche connesse tra loro grazie ad una pièce, indagando così lo spirito umano fin nei più reconditi meandri. Quello che ne emerge è il processo di seduzione spinto fino al limite, sempre in bilico tra erotismo puro, degrado, sadismo e masochismo. Nulla però è mai volgare; i dialoghi sono precisi, con uno stile accuratamente scelto ed elaborato che si riflette anche sulle azioni volte a sedurre in modo così sottile da colpire nel profondo.
Polanski sa quello che fa: osa ma non troppo rendendo però appieno il concetto che vuole trasmettere come, del resto, anche nei suoi film precedenti. Si nota sempre quel sottile erotismo che emerge in film quali Rosmary's baby, Per favore non mordermi sul collo, La nona porta e perché no anche in Carnage. Si potrebbe quasi dire che è uno dei tratti, se non il tratto, distintivo del regista stesso; ma attenzione a non confondere tutto ciò, specie in un film come Venere in pelliccia, con il pornografico come alcuni hanno provato a fare.
C'è cinema e cinema e quello di Polanski è certamente cinema di qualità!


martedì 6 maggio 2014

Il soffio di Miyazaki

Finalmente, dopo quasi un anno dalla sua uscita, sono riuscita a vedere, seppur in giapponese sottotitolato (con molte lacune), Si alza il vento di uno dei miei registi preferiti e a cui sono più legata: Hayao Miyazaki.
Presentato alla 70° Mostra Internazionale di Venezia è anche, purtroppo, l'ultimo lavoro di uno dei più grandi registi giapponesi di animazione, capace di mettere in crisi società solide come la Disney.
Il film, tratto da un manga dello stesso regista, racconta la storia di Jiro che fin da bambino sogna di costruire aerei e si ispira, arrivando persino a dialogare con lui nei suoi sogni, a Giovanni Battista Caproni, pioniere italiano dell'ingegneria aeronautica. Il suo viaggio segue il percorso, o meglio viene guidato, dal vento, imprescindibile per il volo e principale elemento con cui deve relazionarsi durante la costruzione dei suoi aerei. Il vento porta però anche all'incontro di Jiro con Naoko, ragazza malata di tubercolosi destinata a una fine prematura. Nonostante tutto l'amore sboccia ravvivato proprio da quello stesso vento che porta Jiro a diventare il migliore costruttore di aerei del Giappone durante la Seconda Guerra Mondiale.
Miyazaki con questo film rende un ultimo, enorme omaggio alla sua passione più grande dopo la settima arte: il volo. Non va infatti dimenticato che è cresciuto in una famiglia che aveva una fabbrica di pezzi per aerei proprio durante il secondo conflitto mondiale e quindi è da sempre affascinato da questi enormi "bestioni" del cielo. Da non dimenticare poi, già presente in Porco rosso, il grande elogio all'aeronautica italiana e ai suoi precursori; in questo caso il protagonista è da sempre affascinato dalla figura di Caproni e dalla sua inventiva in fatto di mezzi non impiegati in guerra ma per il trasporto di persone. Nei suoi sogni si ritrova sempre in sua compagnia sulle ali di qualche nuovo velivolo pronto per essere progettato.
Il volo poi rientra nell'altro grande macro-tema caro al regista: la natura. Basti pensare solo all'incipit del film tratto da una frese di Paul Valery:
"Le vent se lève. Il faut tenter de vivre."
E' il vento che guida sempre il protagonista nel suo percorso di crescita, è il vento che lo porta all'incontro con Naoko, è il vento che lo porta ad essere il più grande ingegnere aeronautico del suo paese. Il vento quindi è un elemento che cresce e si sviluppa in simbiosi con l'essere umano, che viene rispettato da quest'ultimo, quasi venerato (in oriente, va tenuto presente, forte è la cultura shintoista in cui vige il rispetto per tutto ciò che concerne la natura); è l'equivalente del Totoro in Il mio vicino Totoro o del Dio-Cervo in Principessa Mononoke e così via. 
Sarà infine il vento a portare l'ultimo saluto di Naoko a Jiro con il desiderio di continuare a vivere per entrambi.
Miyazaki ci regala quest'ultimo gioiello di eleganza e leggerezza concludendo una lunga carriera ricca di successi che solo adesso, a distanza di anni, vengono scoperti dal mondo occidentale.

domenica 4 maggio 2014

Terrence Malick e il cinema intimistico

E' ora di cambiare argomento e passare da Almodovar ad un altro grande regista che ho scoperto da poco: Terrence Malick.
Malick è una personalità in totale contrapposizione con gli stilemi tipicamente hollywoodiani perché si isola volontariamente da tutto quello che concerne lo star system: non rilascia interviste, non ama farsi fotografare e non partecipa a serate-evento o conferenze stampa. Nonostante tutti questi "difetti" molti grandi attori si sono offerti di recitare, addirittura gratuitamente, nei suoi film, riconoscendone così il valore implicito di questo uomo. 
Anche il suo stile, non potrebbe essere altrimenti, è molto particolare, intenso, caratterizzato da personaggi generalmente soli anche quando contornati da molti altri e disperati perché non in armonia con ciò che li circonda. Da non sottovalutare inoltre è l'elemento natura, sempre presente e in diretto contatto con i personaggi; si può quasi dire che è lei la vera protagonista ogni volta. Anche la natura però ha in sé tutti gli elementi tipici di Malick: è solitaria, raccoglie la disperazione che aleggia sugli esseri umani e si fa carico di ogni pena e dolore. 
Tra i film che ho visto ho scelto, e che secondo me racchiude appieno la poetica del regista,  La sottile linea rossa. Film di guerra ma non sulla guerra ha un cast maschile incredibile (Penn, Nolte, Caviezel, Brody, Cusack e molti altri) e narra la storia dell'assalto nel 1942 all'isola di Guadalcanal, rocca di un campo di aviazione giapponese. Già di per sé l'impresa appare suicida a causa del forte vantaggio nipponico perché detentore della cima più alta della stessa isola; ne consegue che ogni possibile tentativo di avvicinamento finisce in un massacro. Ma pur di mostrare la superiorità americana si è disposti a tutto, anche a sacrificare giovani vite inutilmente.
Questo è quello su cui si concentra il registra: mostrare la disperazione negli occhi, nei gesti e nei corpi straziati di un gruppo di militari che, pur capendo l'assurdità degli ordini ricevuti, non si tirano indietro davanti al loro dovere. E' qui, tra bombe e colpi di mitragliatrice, che emerge il vero spirito umano: uno spirito labile, facilmente corruttibile ma anche disposto al sacrificio come nel caso del soldato Witt che prima diserta l'esercito e poi si immola per salvare i suoi compagni. O come il capitano Staros che si oppone agli ordini omicidi del colonnello Tall e viene quindi sollevato dal suo incarico.
A fare da sfondo c'è la natura: incontaminata e selvaggia fino all'arrivo dell'uomo che la trasforma in un arido cimitero. In alcune sequenze il vento che muove l'erba sembra quasi voler guidare i protagonisti verso il loro destino, accompagnarli nel loro viaggio nel bene e nel male. 
Simbolico e indicativo, capace di contenere tutto lo stile di Malick è invece uno scambio di battute tra Witt (il primo a parlare) e il sergente Welsh:
"Lei non si sente mai solo?
Solo in mezzo alla gente"
Tale tema si nota infatti anche in altri suoi film come I giorni del cielo, The tree of Life e anche in The New World.
Cinema molto intimistico rispecchia il desiderio di tranquillità e solitudine del suo creatore; Malick non va sottovalutato o sminuito per questo, ma al contrario apprezzato ancora di più.

venerdì 2 maggio 2014

Pedro e le sue donne!

Terzo post su Almodovar! Ho scelto come film, per ricollegarmi all'opera precedente, Donne sull'orlo di una crisi di nervi. Film che ha sancito definitivamente la consacrazione del regista a big del mondo cinefilo.
Il film è la storia di Pepa, doppiatrice cinematografica (e già si notano richiami metafilmici), che deve a tutti i costi mettersi in contatto con il suo compagno, che nel frattempo sta partendo con l'amante per l'estero, per dirgli di essere incinta. Nel frattempo però si dispiegano anche altre storie parallele, sempre legate a Pepa, di altre donne: Candela deve nascondersi dall'amica per aver ospitato dei terroristi nel suo appartamento, Carlos e Marisa in visita perché vogliono affittare il locale, Lucia, prima moglie di Ivan (il compagno di Pepa), che pensa lui sia con Pepa e infine un paio di poliziotti e il tecnico venuto a riparare il telefono. In tutto questo via vai di persone scoppiano liti e problemi a non finire che vengono, almeno temporaneamente, risolti con un gazpacho "alternativo". 
Il finale è sì un lieto fine, si suppone, ma non di quelli tradizionali, atto a mostrare come a volte per prendere delle decisioni importanti non occorre per forza essere in due; basta uno, ma che sia donna!
Donne sull'orlo di una crisi di nervi è il primo film davvero impegnato di Almodovar dopo l'esordio avvenuto otto anni prima ed è ricco di elementi autobiografici, primo tra tutti il telefono che qui ha quasi il ruolo di coprotagonista. Infatti Pedro ha lavorato per una decina d'anni presso la Telefonica (maggiore società di telecomunicazioni spagnola) prima di passare al cinema e nel film vuole mostrare come il telefono sia lo strumento perfetto per divulgare bugie e creare problemi. Difatti finisce più di una volta giù dalla finestra!
E poi il film è un film di donne, gli uomini compaiono solo in secondo piano: poliziotti, tecnici, lo stesso compagno che alla fine risulta essere del tutto inutile. Sono le figure femminile che sostengono la storia, che la portano avanti e trovano soluzioni a qualsiasi tipo di problema; una su tutte il gazpacho "imbottito" di sonniferi. E, nonostante tutti gli inconvenienti, le incomprensioni, alla fine sono tutte riunite insieme per il fine comune: essere autosufficienti senza uomini!
Il film riscuote un grande successo sia in patria, rispetto alle precedenti opere, che soprattutto all'estero; infatti vince ben 5 premi Goya, il maggiore riconoscimento cinematografico spagnolo oltre che la nomination agli Oscar come Miglior film straniero. Questo mostra come anche la consapevolezza artistica di Almodovar sta prendendo forma concreta e solida, evolvendo sia contenutisticamente che stilisticamente, fino alla piena maturazione con le opere a venire.