sabato 22 febbraio 2014

12 anni schiavo: l'America al banco degli imputati

Dall'anno scorso, nel cinema americano, si è diffuso come tema nei film quello della schiavitù dei neri d'America, dei loro diritti e della loro liberazione. Lincoln, Django Unchained, The Butler e infine 12 anni schiavo. In tutti questi film si mostra, giustamente, non dico mica il contrario, la crescita della più grande potenza mondiale, gli USA, verso quel lungo e doloroso processo di "evoluzione" che è stato il pieno riconoscimento dei diritti e della libertà soprattutto della popolazione di colore.
Il film di cui voglio parlare qui è 12 anni schiavo di Steve McQueen, storia vera di Solomon Northup che da uomo libero diventa schiavo. Affermato musicista nella New York del 1841 viene tratto in inganno e rapito per essere venduto ai proprietari delle piantagioni di cotone degli Stati del Sud. Passato da un padrone all'altro nell'arco di 12 anni, ricevendo insulti, frustate e umiliazioni di ogni tipo Solomon è costretto a rinunciare al suo vero nome, e di conseguenza alla sua identità, e deve nascondere di essere acculturato per non rischiare di morire. E' solo grazie a un uomo, Bass, abolizionista canadese che riesce a riconquistare la libertà e tornare a casa dalla sua famiglia. 
Il film è di una violenza a volte quasi inguardabile, e inudibile, ma perché voluto così dal regista stesso per mostrare come una Paese così evoluto come l'America abbia potuto rimanere cieco e anzi permettere che un crimine come la tratta delle persone e la loro messa in schiavitù fosse perpetrato per molto tempo. Si mostra anche la diversa mentalità di una stessa nazione, fortemente divisa tra gli Stati del nord, più aperti e progressisti, e quelli del sud, ancorati a convinzioni tramandate negli anni. Non va poi dimenticato che di lì a poco scoppierà la Guerra civile che si concluderà proprio con la definitiva abolizione della schiavitù.
Tornando al film ci accorgiamo, questo dopo aver finito di guardarlo, che molto spesso ci ritroviamo noi spettatori ad essere Solomon, a vedere con i suoi occhi o a immedesimarci (per quando possibile) con quello che prova; ciò è dovuto allo stile adottato da McQueen, ai primi piani e all'angolazione dell'inquadratura che molto spesso porta lo sguardo del protagonista a guardare dritto in camera, e quindi a guardare noi come se volesse dirci: "voi che state lì impassibili a guardare quello che mi succede non fate niente per fermare tutto questo?". Così facendo ci rende partecipi della vicenda, ci fa soffrire con lui ogni volta che riceve una frustata, ma ci fa anche gioire per il suo finale.
McQueen però ci fa riflettere anche su qualcos'altro: come la "razza" bianca si sia sempre considerata superiore ad ogni altra. Questo non per una sua personale rivendicazione (il regista è di colore) sul genere, ma perché è così punto e basta; quanto l'America ha lottato per un Presidente di colore? quand'è che avremo un Papa nero? 
Sarà perché tutti questi film sono usciti in un breve lasso di tempo o perché sotto sotto un po' fastidio ci danno, ci sentiamo saturi dell'argomento ma non possiamo dimenticarci di questa crudele pagina della storia dell'uomo. 

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