sabato 28 giugno 2014

Brother Kitano

Rieccomi qua dopo un'immaginaria vacanza nel Principato monegasco per cambiare completamente genere e proporvi un film che però parla sempre di famiglia in qualche modo. 
Ecco dunque a voi Brother di Takeshi Kitano.
Protagonista della storia è Yamamoto, uomo di mezza età, a cui è stata sterminata la famiglia in Giappone ad opera di bande rivali che si contendono il controllo del territorio e il conseguente profitto che ne deriva. Ormai solo e in pericolo decide di scappare in America dove si trova il fratello minore che nel frattempo è diventato un piccolo spacciatore di droga. Qui però Yamamoto non riesce a stare con le mani in mano e decide quindi, pur non conoscendo una sola parola di inglese, di mettere in piedi un suo commercio di stupefacenti, includendovi il fratello e alcuni suoi amici spacciatori. In breve tempo si viene a costituire attorno a lui una vera e propria famiglia in cui i vari membri sono disposti a sacrificarsi pur di salvargli la vita. La pace tuttavia non può durare e, man mano, gli altri clan locali intraprendono una lotta senza quartiere per impossessarsi nuovamente dei territori persi: non sanno a cosa vanno incontro; la furia di Yamamoto, perennemente calmo all'apparenza, si riversa senza pietà su di loro eliminandoli uno ad uno. Tutto ciò fino a che non interviene la Mafia italiana che non accetta il nuovo nucleo straniero ogni giorni più potente; darà così vita ad una vera guerra destinata a sfociare inesorabilmente in un massacro.
Kitano, regista e protagonista, mostra con uno stile del tutto personale, quello stile che lo ha reso famoso alla critica mondiale, una storia di famiglia. E' però una famiglia particolare, non per forza unita da legami di sangue ma sempre fedele tra i suoi membri. Kitano indaga i rapporti all'interno dei clan che trafficano in droga, mostrando come le parentele siano del tutto o quasi inutili perché quello che conta non è il legame familiare ma la lealtà al capo banda da parte dei suoi sottoposti.
Anche se fratelli Yamamoto e Ken vivono esistenze completamente separate, senza troppo curarsi dei problemi dell'altro; persino del momento clou, quello in cui si richiederebbe il sostegno maggiore, si preferisce scappare pur di salvarsi la vita. Che poi l'esito sia favorevole o meno questo è da vedere.
Genere preferito dal regista, Kitano alterna scene di violenza, a volte quasi splatter, frenetiche e veloci a lunghe pause in cui dominano i silenzi e gli sguardi lanciati di sottecchi come a voler studiare le mosse di un possibile avversario per carpirne la strategia. Su tutti poi spicca la sua figura, quella di Yamamoto, un samurai contemporaneo senza dimora e senza niente da perdere se non la sua vita che comunque non considera come un bene così prezioso. Figura enigmatica e silenziosa sa molto prima di tutti gli altri quale sarà il suo destino e lo accetta consapevole di ciò che esso comporta.
Non tutti i registi sono capaci di trasmettere emozioni profonde con semplici sguardi e tanti silenzi, ci vuole particolare tatto a abilità nel dialogare con e attraverso la macchina da presa. Kitano ha questo dono.
Benché io preferisca altre sue opere non posso dire che questa non mi sia piaciuta..
                                                                                                                                                     3

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